FAUSTO E IAIO: 18 marzo 1978

La targa in loro memoria è stata imbrattata con una svastica, ma Milano non dimentica Fausto e Iaio, i due diciottenni che frequentavano il centro sociale Leoncavallo e che furono uccisi a colpi di pistola il 18 marzo di quarant’anni fa in via Mancinelli.

Qui, come ogni anno, nell’ anniversario della morte si ritroveranno in tanti, dal primo pomeriggio, nell’appuntamento organizzato dall’associazione familiari e amici di Fausto e Iaio, che domenica assumerà ancora più valore, per la ricorrenza del quarantesimo dalla morte e per l’oltraggio appena subito, e già cancellato.

Durante la giornata, organizzata in collaborazione col Municipio 3, in via Valvassori Peroni 6 ore 14,30 sono attesi tra gli altri Ricky Gianco, il presidente di Anpi Milano Roberto Cenati e Francesco Baro Barilli, che presenterà il fumetto su Fausto e Iaio.La sera prima, al Leoncavallo, verrà presentato il libro ’L’assassinio di Fausto e Iaio’ (RedStarPress) di Saverio Ferrari e Luigi Mariani.

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Fausto e Iaio, che idea morire di marzo

Uno dei misteri più grandi che mi è capitato di “vivere” in prima persona è stato quello dell’omicidio di Fausto e Iaio, trent’anni fa a Milano. Allora avevo da poco cominciato a fare il giornalista, e seguii il caso da vicino. Il mistero è ancora rimasto tale fino ad oggi, e chissà – io lo spero con tutte le mie forze! – se si risolverà mai. Qualche tempo fa ho scritto la storia di questi due ragazzi per L’Europeo. Ho pensato, per tener viva la memoria di quel terribile mistero e per far sentire alla mia amica Maria – sorella di Iaio – che la mia vicinanza non verrà mai meno, di ripubblicarlo qui perché tutti lo possano leggere. E magari indignarsi, e chiedersi perché mai due ragazzi debbano morire così. Che idea, eh?, morire di marzo…

Oggi, non è cambiata molto da allora. Via Mancinelli, al quartiere Casoretto di Milano, è praticamente rimasta quella che era quella sera, la sera di sabato 18 marzo del 1978. Certo, tutta la città adesso è diversa, e parecchio. Rispetto al contesto di allora non ci sono più i venti gelidi che la spazzavano tristemente in quegli anni. Venti soprattutto di disagio e di contrapposizione fra giovani di schieramento politico opposto. Venti anche pesantemente contaminati dal terrorismo più feroce ben radicato in città, e che solo meno di due giorni prima – a Roma, ma anche con protagonisti assolutamente milanesi – aveva portato a termine l’impresa più criminosa ed efferata della storia del nostro Paese: il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse.

Rispetto a quella sera, in più, c’è la lapide che ricorda l’episodio: “Ai compagni Iaio Iannucci e Fausto Tinelli, qui uccisi dai fascisti”, con la data di quel giorno tragico. Poi, è rimasto uguale il muro grigio che la cinge da una parte e dell’altra; uguale il colpo d’occhio che da lì portava al Centro Sociale Leoncavallo (quello non c’è più, trasferito dopo tanti altri conflitti in una zona, se possibile, ancor più periferica); stessa la postazione dell’edicola all’angolo dove i due giovani si fermarono a guardare e commentare i titoli dei giornali che parlavano di Moro prima di imboccare la strada che li avrebbe portati incontro al loro incredibile destino; è rimasto al suo posto anche il campetto dell’oratorio in terra battuta sul retro della abbazia dedicata a Santa Maria della Misericordia (bellissimo anche il chiostro, il tutto risalente al XV secolo) di piazza San Materno, che nemmeno quattro giorni dopo li avrebbe accolti per l’ultimo saluto.

Se ci si mette, anche adesso, a quell’angolo di via si possono benissimo immaginare Fausto e Iaio che ci entrano per andare incontro ad una delle morti più misteriose e segrete che la storia d’Italia ricordi, negli ultimi trent’anni.

Un commando venuto dal nulla

Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci avevano poco più di diciotto anni e una vita fin troppo simile a quella di migliaia loro coetanei: un impegno politico “normale” e naturale per la generazione milanese di quegli anni, le amicizie al centro sociale, la passione per la musica e per i concerti, i primi amori. Normali anche le abitudini (forse troppo, se qualcuno poteva avere interesse a prender nota degli spostamenti): il pomeriggio del sabato diviso fra la puntata al vicino Parco Lambro, la passeggiata con la fidanzatina, la solita capatina al Leonka con l’arrivederci per il concerto della sera, il saluto agli amici riuniti al bar di fronte. Poi, il ritrovarsi fra loro e l’incamminarsi verso casa di Fausto: il risotto di mamma Danila li attendeva, anche questo come d’abitudine ogni fine settimana, per le otto in punto.

Per chi conosce Milano e la zona viene naturale pensare che la strada più ovvia per andare verso via Montenevoso (la loro mèta) sia quella che dal Leoncavallo (nella via omonima) porta direttamente in via Mancinelli, la prima traversa a destra. Invece loro non lo fanno, ed è una stranezza che non potranno mai spiegare a nessuno: i due amici escono a sinistra, girano e risalgono via Lambrate, arrivano allo slargo nella piazza della chiesa, svoltano in via Casoretto e dopo pochi metri si trovano all’altezza di Mancinelli alla fine di un giro più lungo. A questo punto logica vuole che vadano oltre per un altro mezzo chilometro per arrivare a casa Tinelli, invece qualcosa o qualcuno li richiama verso il punto in cui cadranno di lì a poco. Secondo la signora Marisa Biffi, unica testimone diretta del delitto, Fausto e Iaio si sarebbero fatti incontro a tre giovani più o meno della stessa età, altezza media: due con impermeabile bianco, il terzo con giubbotto marrone. La donna, lontana solo pochi metri, coglie solo qualche spezzone di frase: più o meno “Siete del Leoncavallo?”, poi sente scoppiare botti che all’inizio le paion petardi. Sono colpi di Beretta 80 calibro 7,65 invece, attutiti da un sacchetto di plastica bianca che avvolge la pistola a mò di raccoglitore dei bossoli: nove in totale, equamente divisi fra le vittime, tutti (meno uno, rinvenuto tempo dopo incastrato nel marciapiede) andati a segno. Entrambi cadono senza un lamento: Iaio muore subito, Fausto durante il tragitto in ospedale.I tre assassini risalgono la via, strada che avrebbero dovuto fare le loro vittime e che non avrebbero dovuto fare – sempre secondo logica – assolutamente loro, perché più lunga ed esposta. Due da una parte – quelli in bianco – uno dall’altra parte del marciapiede, opposto all’agguato. E arrivano in fondo giusto quando la prima gazzella dei Carabinieri entra nella via, pochi attimi dopo il fatto e non si saprà mai chiamata da chi. I tre killer a questo punto semplicemente spariscono, svaniscono nel nulla.

Inchieste che cadono nel vuoto e un’altra morte misteriosa

Nei tentativi di ricostruzione successivi all’accaduto c’è chi dirà che lo fanno in macchina e in moto raccolti da due complici in copertura, chi dice a piedi, secondo altri addirittura confusi fra gli avventori del Leoncavallo dopo esservi entrati dal retro (ad avvalorare la tesi della faida interna all’ultrasinistra). La non chiarezza su questo “ripiegare militare” del commando farà da prologo a tutta l’inchiesta, mai venuta praticamente a capo del mistero e archiviata il 6 dicembre 2000, ventidue anni e mezzo più tardi, dal Gip Clementina Forleo con questa motivazione, nel classico e freddo burocratese uso in questi casi: “Pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva ed in particolare degli attuali indagati (Massimo Carminati, Mario Corsi e Claudio Bracci), appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi, e ciò soprattutto per la natura del reato e delle pur rilevanti dichiarazioni”.

Da allora nessuno indaga più ufficialmente su come e perché due ragazzi milanesi assolutamente simili a migliaia di altri siano stati uccisi con modalità d’esecuzione chiaramente e freddamente studiata a tavolino. Nessuna indagine è stata in grado di chiarire qualsivoglia nesso logico certo sul perché siano stati proprio loro – obiettivi apparentemente casuali – a cadere sotto i colpi di pistola sparati da un killer indubbiamente professionista appoggiato da un vero e proprio commando militare.

In effetti, sarebbe meglio dire che le ipotesi sono state tante ma, per i diversi inquirenti impegnati nel caso, neanche una convincente o capace di sciogliere fino in fondo l’enigma. Non sembrava però avere dubbi il capo di Gabinetto della Questura di Milano Bessone, il primo funzionario di Polizia ad incontrare i giornalisti, la sera stessa, sul luogo del delitto: “E’ chiaro – disse – che si tratta di un regolamento di conti, una faida fra gruppi della nuova sinistra o inerente al traffico di stupefacenti”. Una spiegazione che non convinse nessuno dei presenti. E’ vero che Fausto Tinelli aveva collaborato alla stesura di un “libro bianco” dedicato allo spaccio di stupefacenti nel quartiere (una piaga estesissima, nella Milano di quegli anni) ma l’opera – una di quelle che allora si definivano di “controinformazione” – niente poteva avere a che fare con l’interno di quell’universo: lo scopo dichiarato era opposto, cioè di fungere da denuncia del fenomeno.

Una improbabile “resa dei conti”, quella paventata da Bessone, che soprattutto non aveva convinto Mauro Brutto, giovane e combattivo cronista di nera de l’Unità. Brutto si mise a raccogliere indizi, a fare congetture, a rivelare (a colleghi e amici) intuizioni. Ma non avrà modo di arrivare in fondo alla sua inchiesta: verrà ucciso da un’auto pirata – una Simca 1100 bianca della quale non si rinvenne mai nessuna traccia – sulle strisce pedonali sempre a Milano, in via Murat, poco tempo dopo, il 25 novembre. Per i testimoni dell’accaduto, l’autista parte improvvisamente da un parcheggio lì vicino puntando dritto sul giornalista; il suo borsello, che conteneva appunti e considerazioni sul duplice delitto (sparito nella confusione successiva all’investimento) verrà ritrovato a trecento metri dal luogo dell’incidente, in un’altra via. Vuoto. Ma le indagini di Brutto vengono comunque alla luce e rafforzano quello che gli inquirenti hanno capito forse subito: l’esecuzione sembra essere frutto di una tipica azione di elementi di destra. Anche perché solo pochi giorni dopo il fatto di via Mancinelli, il 23 marzo, in una cabina telefonica di Roma la polizia rinviene un volantino a firma “Esercito Nazionale Rivoluzionario, Brigata Combattente Franco Anselmi”; nel testo, fra l’altro, si legge: “Sabato 18 marzo una nostra brigata armata di Milano ha giustiziato i servi del sistema Tinelli Fausto e Iannucci Lorenzo. Con questo gesto vogliamo vendicare la morte di tutti i camerati assassinati dagli strumenti della reazione e della sovversione” . A parte la stranezza di voler accreditare il delitto ad una “brigata armata di Milano” (quasi a voler rimarcare la lontananza da Roma: un trucchetto che anche i magistrati ritengono ingenuo), è la prima volta che l’Esercito Nazionale Rivoluzionario rivendica un’azione armata. Anselmi è un militante dei primi Nar, ucciso lunedì 6 marzo 1978 – pochissimi giorni prima dei fatti del Casoretto – mentre tentava di compiere una rapina in un’armeria in compagnia dei fratelli Giusva e Cristiano Fioravanti e di Alessandro Alibrandi, nomi tristemente famosissimi del panorama neofascista. Il documento è interessante soprattutto nella parte finale: “Da questo momento cominceremo ad agire e nulla potrà fermarci”. Secondo il volantino, dunque, i Nar iniziano la loro attività proprio quel 18 marzo 1978: da allora, in effetti, saranno diverse le azioni criminali che commetteranno con questa sigla.

Negli anni le indagini non toccheranno mai – è un dato incontrovertibile – nessun elemento di sinistra, mentre saranno anche molti altri i neofascisti coinvolti. E gli elementi faticosamente raccolti dagli inquirenti portano proprio nella capitale, sfiorano anche elementi della banda della Magliana, paventano connessioni con settori deviati dei servizi segreti (nel giro dei sospettati entrano anche elementi collegati all’assassinio del giornalista piduista Mino Pecorelli) e mettono in luce la possibilità che l’agguato possa essere stato commesso da killer “in trasferta”. In tre – appunto Massimo Carminati (proprio uno dei sospettati dell’assassinio Pecorelli), Claudio Bracci, Mario Corsi (soprannominato Marione, uno dei capi riconosciuti, a tutt’oggi, degli ultras della Roma) – vengono anche incriminati grazie alle dichiarazioni a più riprese di pentiti – in totale sei, compreso Angelo Izzo – che, in tempi diversi, saranno prodighi di rivelazioni sulle responsabilità del terzetto, anche se sarà impossibile arrivare all’accertamento di prove certe. Anche gruppi ed elementi della destra milanese finiranno nel mirino degli inquirenti: particolare attenzione viene rivolta a personaggi di quel sottobosco e a spacciatori di eroina del Casoretto.

Nel tourbillon delle varie indagini che si snoderanno negli anni compariranno e spariranno impermeabili bianchi e giubbotti marroni, verranno acquisite testimonianze definite importantissime prima di trasformarsi in irrilevanti, entreranno e usciranno dall’inchiesta personaggi più o meno credibili.

Addirittura, un cappello di lana blu sporco di sangue e con alcuni capelli biondi ben visibili all’interno – ritrovato sul luogo dell’agguato durante la prima rimozione della montagna di fiori lasciati sul luogo dell’agguato – sparirà misteriosamente dall’ufficio Corpi di reato del Tribunale di Milano.

Un altro episodio sconcertante è dato dal fatto che la casa di Fausto Tinelli si trovava (e si trova, a tutt’oggi) in via Montenevoso 9, esattamente di fronte al numero 8, dove si è poi scoperto uno dei covi più importanti delle Brigate Rosse, quello che nascondeva il memoriale di Aldo Moro. Franco Bonisoli, esponente brigatista a lungo occupante quel rifugio, dirà anni dopo che le Br – che avevano addirittura dedicato parte del loro comunicato numero 2 sul rapimento di Moro ai due ragazzi di Milano, rendendo omaggio “ai compagni Lorenzo Jannucci e Fausto Tinelli, assassinati dai sicari del regime” – erano rimaste molto colpite dal delitto del Casoretto, ma incalzato (da Daniele Biacchessi, autore del libro “Fuasto e Iaio”, Baldini & Castoldi, 1996) con una domanda sull’originalità data dalla vicinanza fra le due abitazioni, risponderà quasi confuso di non esserne mai stato al corrente: strano, perché le finestre di Fausto davano esattamente su quelle del covo, e si è anche ipotizzato – fra le varie congetture – che il giovane potesse essere stato testimone di qualcosa che non avrebbe mai dovuto vedere.

In più, pedinamenti e appostamenti – a piedi e in macchina – nei confronti di tutta la famiglia Tinelli erano stati notati da almeno quattro settimane prima del delitto, e di questo il giovane si era detto turbato a molti amici. Addirittura, una signora bionda (contraddistintasi per un look assolutamente non compatibile con quello dei giovani di sinistra di allora) era andata – con la scusa di essere una sua ammiratrice – pochi giorni prima del 18 marzo ad interrogare i vicini di casa sulle abitudini di Fausto: orari, spostamenti, scuola frequentata, amicizie.

A suggello di un mistero quasi da thriller, il pomeriggio di quel giorno fatale a casa Iannucci (proprio in piazza San Materno 1, di fronte alla chiesa) si presentò anche un giovane di colore, mai visto prima né più dopo, che in tono allarmato e concitato suonò alla porta di casa, e ai familiari del ragazzo (lo ha raccontato Iaia, la sorella) esclamò: “Eight o’clock, eight o’clock! Danger, danger!” prima di scappare a gambe levate. “Le otto di sera, pericolo!”: minuto più minuto meno, l’ora esatta del delitto.

E’ necessario anche sottolineare un altro episodio. In quegli anni erano famose – anche oltre i confini del Casoretto – le gesta della locale “banda Bellini”, dal cognome di Angelo, il capo riconosciuto, un antesignano per gesti e ideologia (confusa) di quella che sarebbe poi stata l’autonomia operaia. Bellini sfuggì tre anni prima ad un attentato sotto casa, curiosamente messo in atto da elementi della destra romana in trasferta…

Naturalmente, anche i giornali quotidiani della sinistra extraparlamentare dell’epoca si impegnarono in vari tentativi di controinformazione; a farlo furono Quotidiano dei Lavoratori, Lotta Continua, La Sinistra. Tentativi volti anche a sottolineare la possibile responsabilità dell’eversione di destra impiegata come manovalanza nell’ambito di un disegno (peraltro già vissuto dal nostro Paese) di “strategia della tensione” in un contesto coincidente con il rapimento Moro che avrebbe potuto favorire il travolgere delle istituzioni. Tentativi, anche questi, senza nessun risultato tangibile.Una mancanza di appigli investigativi totale che rimanderebbe ad un comportamento “culturale” classico, e ben noto della storia italiana: l’omertà ermetica propria delle situazioni mafiose. E la mafia, occorre sottolinearlo, era ben presente in quella zona proprio attraverso il traffico e lo spaccio di eroina, demandata ad un sottobosco stanziale nel quartiere, a metà strada tra il confusamente politicizzato di destra e il delinquenziale puro. Proprio il sottobosco su cui stava lavorando il gruppo di lavoro per la stesura del “libro bianco” al quale faceva riferimento attivo anche Fausto Tinelli.

Nel complesso sono stati diversi i magistrati che si sono succeduti nell’inchiesta; in particolare Guido Salvini ha dedicato al caso quindici lunghi anni di indagini, tentando tenacemente di arrivare a conclusioni certe. Anch’egli senza successo.

Aldo Giannuli, uno dei massimi consulenti della commissione Stragi, in una perizia sul caso redatta nel 1998 per conto del Tribunale milanese, ha affermato: “I fascicoli sull’omicidio si presentavano poveri, non comparivano note confidenziali, nessun scambio epistolare con altri corpi di polizia, nessun passaggio d’inchiesta. Il silenzio appare strano. Totale assenza di veline. Nessun rapporto della squadra narcotici. Nessun informatore ha acquisito la minima notizia sul caso”.

Una città ferita

Praticamente subito dopo il delitto la città si mobilitò. Chiamati a raccolta dal tam tam delle radio libere – Canale 96, Radio Popolare, Radio Regione – migliaia di giovani e militanti della sinistra extraparlamentare si concentrarono al Casoretto. Il luogo dove erano caduti i due ragazzi da quel momento diventò un simbolo, punto di raccolta di montagne di fiori e migliaia di bigliettini: poesie, scritti e semplici pensieri degli amici o di chi non li aveva mai conosciuti, ma che in loro si riconosceva naturalmente.

La sera stessa di quel sabato un corteo spontaneo di almeno trentamila persone sfilerà nelle strade del quartiere per poi abbandonarsi ad atti di violenza in centro, in un clima generale di grande tensione che solo la fermezza dei diversi leader accorsi sul posto non trasformerà in tragedia, come già era successo in città tempo prima dopo la morte di Claudio Varalli. I manifestanti saranno almeno il doppio la mattina dopo, e non meno di centomila quella di mercoledì, giorno dei funerali: a parteciparvi sarà anche tutto il quartiere.

Le strade dei due amici, a quel punto, si dividono: Lorenzo va al cimitero di Lambrate, ad un tiro di schioppo dal quartiere; Fausto viene invece portato a Trento, città d’origine e di vacanza l’estate. Al ritorno la famiglia Tinelli trova la casa “ordinatamente” sottosopra: sono entrati uomini (lo dicono i vicini) eleganti e silenziosi, e a sparire sono una serie di nastri magnetici registrati dal figlio che solo lui sapeva cosa contenessero: non li aveva mai fatto ascoltare a nessuno.

In quei giorni nascerà il “Comitato delle madri del Leoncavallo”, un gruppo di donne vicine al centro sociale che negli anni ha sempre tentato di tenere vivo il ricordo di quei fatti oscuri e di chiedere giustizia. Le stessi madri, oltre ai compagni di allora e a quelli che si sono aggiunti negli anni, sono attualmente impegnate a salvare il Leoncavallo – già alla sua terza sede – dalla definitiva chiusura, eventualità contro la quale si sono mobilitati anche decine di intellettuali e artisti. Secondo Moni Ovadia (la Repubblica, giovedì 26 gennaio 2006) “Il Leoncavallo è una delle realtà più vive e fa parte della storia della città. Ha svolto un ruolo fondamentale in campo culturale, sociale e politico offrendo spazi di aggregazione a cittadini come i giovani delle periferie degradate o gli extracomunitari”.

Quella che era la sede iniziale, dopo l’immediata demolizione seguita allo sgombero è diventata una elegante palazzina in vetrocemento verde; l’ingresso di una volta è adesso quello di una banca.

La targa che ricorda i due giovani, proprio dove sono caduti, è sempre adornata di fiori, e i murales intorno e di fronte sono regolarmente rinnovati e ridisegnati, soprattutto in occasione di ogni anniversario, il 18 marzo. A farlo sono anzitutto i ragazzi del liceo artistico Brera di via Hajech, quello che frequentava Fausto e che gli studenti ribattezzarono da subito con il loro nome.

Danila Angeli, la mamma di Fausto Tinelli, non ha mai smesso di sperare nella verità. In occasione del convegno di Genova ‘I comitati civili contro silenzi e impunità’ – che si è tenuto nel luglio 2003 – ha affermato, fra l’altro: “Noi per lo Stato siamo vittime invisibili, che non vuole proprio vedere. Io mi sento come una madre argentina, e Fausto e Iaio sono dei desaparecidos”.

Qualche settimana dopo il duplice assassinio fu redatto un libro, a raccolta di alcune delle testimonianze lasciate sul luogo dell’assassinio. Il titolo, “Che idea morire di marzo”, è la frase finale di una di quelle lettere, a tutt’oggi conservate dai familiari dei due ragazzi scomparsi.

Un articolo di Tiziano Marelli -


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Data ultima modifica: 18 marzo 2018