Gli effetti negativi del regionalismo

Istituti ricchi per le zone d’Italia più ricche. E poveri per quelle povere. Alunni di serie A e di serie B. Accesso al diritto all’istruzione stravolto. I guai dell’autonomia visti dall’associazione culturale Roars.

Regionalismo differenziato e scuola: su un tema così sensibile è mancato l’ampio dibattito che ci si sarebbe aspettati. Eppure in gioco c’è la trasformazione dell’idea stessa di istruzione pubblica come l’abbiamo conosciuta finora, destinata a cambiare se dovessero essere creati dei sistemi regionali con risorse e regole distinte.

SCUOLE PRIVATE COME CANALI DI ACCESSO PRIVILEGIATO

Fra le critiche al regionalismo differenziato di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna c’è la creazione di scuole e università ricche per le regioni più ricche, e scuole e università povere per le regioni più povere. Non solo. Nelle regioni povere si potrebbero creare scuole private destinate a diventare canali di accesso privilegiato per il transito nelle università ricche delle regioni ricche. Così gli studenti capaci e meritevoli, ma privi di mezzi delle regioni povere, si troverebbero intrappolati in scuole di serie B e in università di serie B.

SCUOLE PRIVATE COME CANALI DI ACCESSO PRIVILEGIATO

Il regionalismo differenziato rischia di creare istituti scolastici di serie A e altri di serie B a seconda delle zone d’Italia.

Su questa linea critica è la redazione di Roars (Return on Academic ReSearch), associazione senza fini di lucro con finalità di carattere culturale in particolare sulle politiche della ricerca, ai sistemi di valutazione e alla formazione terziaria, che ha pubblicato sul suo sito le bozze di intesa per Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, e a cui abbiamo rivolto alcune domande.

INTACCATI DIRITTI FONDAMENTALI COME LA SANITÀ E L’ISTRUZIONE

Roars ha spiegato in modo unitario che «la questione delle autonomie regionali di cui stiamo dibattendo non è un “affare” delle regioni che l’hanno richiesta. Gli effetti con cui queste autonomie si realizzano, con modalità e portata differenti a seconda dell’interpretazione e delle materie di delega che ciascuna regione ha invocato, investono tutti gli italiani. E questo soprattutto quando si parla di diritti fondamentali come la sanità e l’istruzione».

Che cambiamenti può produrre nell’istruzione?

L’introduzione dell’autonomia regionale non produrrebbe semplici “cambiamenti” di natura gestionale, organizzativa, contrattuale, che pure paiono di notevole entità. Il punto da sottolineare è un altro: dal momento in cui si lega il tema dell’autonomia differenziata al gettito fiscale, si introduce il principio in base al quale l’accesso al diritto all’istruzione diventa funzione della residenza.

E quindi?

La volontà di trattenere la quasi totalità del gettito fiscale - si parla dei 9/10 per il Veneto - nel territorio regionale, ferme restando le risorse complessive dello Stato, introduce un elemento di differenziazione nell’accesso a un diritto primario, che diventa invece subordinato alla ricchezza del territorio. A questo è direttamente connessa l’idea di Scuola e i compiti che come società riteniamo debbano esserle affidate: mettere i cittadini italiani nelle condizioni di diventare membri consapevoli, critici e solidali di una comunità nazionale e non particolaristica, i cui valori e i cui principi sono custoditi nella Carta costituzionale.

In che modo l’intesa con l’Emilia-Romagna si differenzia da quella per Lombardia e Veneto? Per quel che riguarda l’istruzione, e limitatamente alla bozza pubblicata e datata 20 dicembre 18, nell’intesa emiliana leggiamo la richiesta (articolo 1 comma b) di “particolare autonomia” in tema di “istruzione tecnica e professionale, istruzione e formazione professionale e universitaria” e non, come per Veneto e Lombardia (articolo 2 comma 2, 3) in “materia di norme generali sull’istruzione e istruzione”. La differenza sostanziale è qui, e riguarda una ridefinizione su scala locale dell’Idea di istruzione ed educazione.

La riforma del 2001 è figlia dell’ambizione con la quale la sinistra voleva imbrigliare sul piano tecnico l’istanza politica che l’avvento della Lega Nord aveva posto al Paese

Già la riforma dell’articolo 116 della Costituzione voluta nel 2001 da D’Alema prevedeva la possibilità che lo Stato contrattasse con singole Regioni il trasferimento di competenze a esso riservate, soprattutto istruzione e sanità. Il governo Gentiloni stipulò una “pre-intesa” a esecutivo ormai praticamente scaduto con la Lombardia e il Veneto. Perché? La riforma del 2001 è figlia della malriposta ambizione con la quale la sinistra di governo seguita al primo esecutivo Berlusconi ha prima pensato di riuscire a imbrigliare sul piano tecnico l’istanza politica che l’avvento della Lega Nord aveva posto al Paese e poi di avvalorare, facendosene alfiere sul piano politico, il cattivo risultato tecnico di quell’ambizione.

Dunque?

Occorre riconoscere che il lungo processo istituzionale che ha partorito la riforma del 2001 ha visto all’opera i migliori costituzionalisti di cui il Paese appariva dotato in quegli anni e ha conosciuto un momento di ratifica popolare, sia pure assai parziale, con il referendum confermativo del 2001. La formulazione assai vaga del secondo comma dell’attuale articolo 116, figlio abborracciato e poco dibattuto di quella riforma, è all’origine della totale opacità con cui il Pd, uscito sconfitto dal referendum del 4 dicembre 2016, ha avviato il percorso che ha prodotto le pre-intese firmate dal governo Gentiloni, quando ormai quel governo era consapevole di essere destinato a uscire di scena. Data la premessa, si può rispondere alla domanda iniziale con quattro tesi.

E cioè?

Tesi dell’autoillusione. Candidarsi a “gestire tecnicamente” la pulsione proveniente dal Lombardo-Veneto a trazione leghista, per proporsi come interpreti realisti e fattivi al Nord produttivo del Paese.

La seconda?

Tesi del “Muoia Sansone”. Lasciare una polpetta avvelenata, destinata a intossicare l’alleanza di governo che sarebbe subentrata all’indomani delle elezioni politiche.

Avanti con la terza…

Tesi dell’insipienza. Eminenza grigia di quelle intese è stato il senatore Pd, nato a Belluno, Gianclaudio Bressa, il cui curriculum politico offre modo di verificarne la presenza in tutti i momenti e i luoghi nei quali il processo istituzionale sfociato nel Regionalismo differenziato – e ben prima del 2001 – si è andato dipanando. Aver lasciato che un agente allineato alle istanze della Lega presidiasse questo delicatissimo campo, senza affiancargli un esponente del partito che fosse interprete dell’elettorato Pd del Centro e Sud Italia, la dice lunga sulle attuali capacità di studio, sintesi e coesione di un partito erede di tradizioni politiche nazionali di ben altro spessore.

E infine la quarta.

Tesi di "San Matteo" (a chi più ha, più sarà dato). La riforma promette di concentrare nel Nord del Paese, e non una tantum bensì annualmente e in modo non reversibile, somme equivalenti a quelle di una manovra di bilancio. Buona parte di queste risorse saranno assorbite dall’estensione delle commesse dei diversi centri di spesa (soprattutto dalla sanità), da incrementi stipendiali degli addetti ai servizi trasferiti (soprattutto della scuola) e da nuove assunzioni di personale regionale. Con un effetto moltiplicativo sulle economie locali che appare un grande e appetibile business per il sistema imprenditoriale del Nord. La politica ha fatto proprie le ragioni di chi conta e pesa di più.

Bisogna fermare in parlamento l’iter del processo di autonomia differenziata regionale e bloccare i lavori della Commissione preposta alla riscrittura del Testo unico attualmente vigente

Quali sono a vostro avviso i provvedimenti più urgenti da affrontare in materia di scuola?

In ordine alla scuola occorre: fermare in parlamento l’iter del processo di autonomia differenziata regionale; fermare i lavori della Commissione preposta (da chi è composta?) alla riscrittura del Testo unico attualmente vigente (decreto legislativo 297/1994), prevista dal comma 181 della legge 107/15 e aprire un dibattito pubblico sulle delicate questioni a essa connessi: riordino degli organi collegiali e dell’organizzazione scolastica. Inoltre, abrogare la legge 107/15 e ripensarne, dopo ampio e serio dibattito pubblico e con i dovuti investimenti a corredo, i nodi cruciali.

E cioè?

I percorsi di reclutamento dei docenti e il sistema di formazione; l’alternanza scuola-lavoro, da eliminare e lasciare alle differenti opportunità delle singole istituzioni scolastiche; la valutazione: abrogare il regolamento del 2013 (DPR 80) e separare la valutazione di sistema da quella dei lavoratori e degli apprendimenti degli studenti.

E per quanto riguarda l’Università?

Occorre garantire un effettivo diritto allo studio su tutto il territorio nazionale, intervenendo sia sul lato degli aiuti agli studenti sia su quello degli organici degli atenei, requisito indispensabile per assicurare un’adeguata offerta formativa; è urgente invertire quel processo di “compressione selettiva e cumulativa” che da un decennio, oltre a colpire in modo differenziato le diverse aree del Paese, ha innescato effetti a valanga nei territori più deboli.

E poi?

Orientare le energie e le risorse all’effettivo miglioramento della qualità della didattica e della ricerca. Infine, recuperare risorse e produttività alleggerendo sia l’ipertrofia burocratica sia le pratiche di (presunta) assicurazione della qualità, da subito degenerate in adempimenti formalistici che sottraggono tempo prezioso al personale docente e tecnico-amministrativo.

Un articolo di Elena Paparelli - lettera43.it

Data ultima modifica: 5 marzo 2019