100 anni RODARI: un meraviglioso intellettuale

Gianni Rodari muore a Roma il 14 aprile 1980. È stato ricoverato pochi giorni prima, il 10 aprile, per un intervento alla gamba sinistra dovuto all’occlusione di una vena. Racconta Julia Dobrovolskaja, la sua traduttrice russa che lo va a trovare in ospedale: “Chiesi a Gianni: ‘Hai paura?’. ‘Molta. Temo che non tornerò… Fatemi fumare l’ultima sigaretta!’”.

L’operazione si rivela più difficile del previsto, Rodari presenta un grosso aneurisma di cui i dottori non si sono accorti prima: un intervento di routine si trasforma in un’operazione di sette ore. Muore per un collasso cardiaco. Non ha ancora compiuto sessant’anni. Scrive l’amico e collega Marcello Argilli:

“Della morte avevo saputo nella serata del 14, quando Lilli Bonucci dell’Unità mi aveva telefonato a casa chiedendomi di scrivere un necrologio. Era morto nel pomeriggio. Sapevo che doveva operarsi ma niente faceva presagire un esito simile. Non è stato facile scrivere quell’articolo”.

Si chiede ai suoi compagni di giornale o di partito (Tullio De Mauro, Paolo Spriano) di scrivere articoli su di lui che usciranno il 16. Senonché il 15 aprile muore Jean-Paul Sartre, l’intellettuale novecentesco per antonomasia. Si cerca invano così, sulla stampa non comunista di quei giorni, un necrologio degno di questo nome per lo scrittore di Omegna. Si trovano, invece, sulla Repubblica, due pagine dedicate a Sartre e una domanda, la cui risposta è affidata a Pier Aldo Rovatti: cosa gli dobbiamo?

Forse, nel 1980, il senso di un debito verso Sartre è tale da far venire meno il dubbio che la stessa domanda si possa porre, proprio nella pagina accanto, anche su Gianni Rodari di cui viene riconosciuto il genio ma non il lascito: in pochi, davvero in pochi, si chiedono in quel momento “cosa gli dobbiamo”, come se la sua eredità fosse impalpabile, non quantificabile, destinata a scomparire visto che ogni bambino prima o poi diventa un adulto e di Rodari sembra non avere più bisogno.

Una filastrocca

Oggi potremmo invece decidere che Sartre e Rodari sono uno accanto all’altro nella storia degli intellettuali del novecento ai quali “dobbiamo qualcosa”. E che il metodo indicato da Rodari, l’uso dialettico dell’immaginazione, è anzi necessario, un “passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo, alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo”.

Ci sono, certo, eccezioni importanti che immediatamente fanno i conti con quello che Rodari ha rappresentato nel panorama culturale italiano (perché non bastano, nella nostra storia culturale, i fantastilioni di lettori che l’hanno letto e amato per inserire uno scrittore nel “canone”). Tullio De Mauro, per esempio, che fin dal 1974 definisce Rodari un classico, nel senso usato da Italo Calvino, suscitando l’ilarità dello stesso Rodari che se lo appunta sulla giacca con un cartello. Un classico, come Collodi, come De Amicis e viene in mente che quando muore Edmondo De Amicis, nel 1908, dalla riviera ligure a Torino due ali ininterrotte di folla ne salutano il feretro che viaggia in treno. Sarebbe piaciuto a Rodari attraversare l’amatissima Italia con una locomotiva, ci avrebbe scritto di certo una filastrocca che immaginiamo più o meno così: c’era un tale di Omegna e non di Vipiteno/ Che al suo funerale c’era andato proprio in treno…

Niente treni per ricordarlo, ma una piccola folla di grandi e piccini nel cuore di Roma, la città che lo ha adottato dagli anni cinquanta. E la memoria dei bambini russi in un curioso articolo: lo credevano altissimo ed erano rimasti delusi di trovarsi di fronte questo signore basso, con giacca da ragioniere e sigaretta. Poi a occuparsi di lui, del suo lascito, amici, studiosi, con un singolare effetto prospettico; mano a mano che il tempo passa, infatti, lo sguardo diventa presbite, aumentano gli scritti specialistici, diminuiscono i momenti di sintesi e Rodari viene fatto a pezzetti, ridotto a funzione, proprio come in una delle carte di Propp di cui egli stesso parla nella Grammatica della fantasia: “Il grande scrittore per l’infanzia”.

Eppure Rodari si è sempre professato uno scrittore per tutti e una delle cose in cui più si è riconosciuto è stata quella di finire, con le sue storie, fra Bertolt Brecht ed Edgar Lee Masters nella collana einaudiana degli Struzzi, con il numero 14: “Sono senza dubbio libri ‘per bambini’, ma non manca chi li considera libri tout court, capitati solo per qualche disguido nello scaffale della letteratura infantile”.

Lo strumento dell’immaginazione

Gianni Rodari è stato il più grande scrittore di favole e filastrocche del novecento italiano e, allo stesso tempo, ha scritto su quotidiani, diretto periodici, è stato attivo collaboratore di associazioni di genitori e insegnanti, ha lavorato in modo originale con le amministrazioni provinciali e comunali, autentico motore di sviluppo democratico del paese tra gli anni sessanta e gli anni settanta del novecento.

Sempre attento ai tempi in cui ha vissuto, che ha scrutato con preoccupazione ma anche con fiducia: dagli anni della guerra fredda a quelli dell’irruzione dei cartoni animati giapponesi, che ha difeso, poco prima di morire, allo stesso modo in cui tanti anni prima, nel 1951, aveva difeso i fumetti: “Ogni tanto si sente parlare di proibire questo o quel fumetto: non sarebbe più utile proibire agli insegnanti di far odiare i libri, trasformandoli in strumenti di tortura anziché di scoperta?”.

Lo strumento che ha usato per forzare la superficie della realtà e sondarne le possibilità è stato quello dell’immaginazione, un’immaginazione che si fonda su un uso rivoluzionario della parola che con tutti i suoi usi è il più grande strumento di liberazione che gli esseri umani abbiano mai inventato. “Tutti gli usi della parola a tutti: mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.

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Data ultima modifica: 14 aprile 2020