25 aprile: quella foto non si dimentica

Pollicino nella storia

IL BAMBINO CON LE MANI IN ALTO

di Nora Giacobini

Il materiale che avevo portato era sistemato, molto grezzamente in verità, su di un cartellone non grande intorno ad un centro: un’immagine.

Un’immagine che aveva fatto molti anni fa il giro del mondo.

Di questa immagine, che poi era una foto, non avevo mai saputo niente di molto preciso, tranne un vago riferimento alla seconda guerra mondiale ed alla persecuzione razziale. Un’immagine tutta da capire e da contestualizzare, come si usa dire, un’immagine misteriosa e sconvolgente, se si fa uno sforzo con l’immaginazione, per riportarsi all’istantaneità del momento reale in cui la foto è stata scattata.

Un bambino con un viso piccolissimo, fatto più piccolo dalla paura o dal bisogno di piangere, un viso affondato in un berretto che sembra da adulto, ma poi guardando bene si vede che è un berrettino, una giacca che anch’essa sembra da adulto, in cui affonda il piccolo corpo, ma poi si scopre che è un cappottino, due gambette magre regolarmente calzate: un bambino appunto con le mani in alto di fronte a soldati con i mitra puntati. Un bambino completamente solo.

Poi accade quello che avviene quando si guardano i quadri di un Tiziano o di un Leonardo e certo anche di altri: nello sfondo ci sono altre cose da scoprire, e non solo i soldati, ma addirittura una folla di persone, uomini e donne e perfino un adolescente e perfino, tagliata a metà perché la foto finisce lì, il volto di una piccola bambina.

Lo strano è che, in confronto alle altre persone ed allo sfondo complessivamente inteso, esso è tale solo perché abbiamo deciso che lo sia rispetto al bambino con le mani in alto.

Il bambino, lo sentiamo, è completamente solo. I suoi occhi non sai bene se tristi, disperati o semplicemente occhi di un bambino che sta lì lì per piangere, si incrociano con i tuoi e ti bucano dentro.

E’ come se tu fossi non uno spettatore, non «di fronte» ad una situazione, ma «dentro» di essa: tutto sta accadendo in questo istante. Capisci allora perché il tuo sguardo non scorre su uno spazio matematico e prospettico preciso: i primi ed i secondi piani infatti si confondono e si alternano in funzione del modo in cui ti metti in rapporto con la folla delle immagini. Ma anche il tempo subisce inquietanti alterazioni: la successione del prima e del poi rispetto all’istante viene cancellata o meglio imprigionata e quell’istante «dura», c’è ancora e per una misteriosa e sconvolgente ragione, sebbene tutto sia già avvenuto, tutto continua ancora ad accadere.

In seguito mi si è presentata la straordinaria possibilità di sapere chi era quel bambino con le mani in alto e che cosa gli fosse veramente accaduto.

In una delle puntate della trasmissione televisiva 1943 e dintorni E. Biagi riferendosi ad una vecchia foto di un ragazzino «…con un berrettuccio di panno e le braccia alzate» ci dice che, sopravvissuto ai tragici avvenimenti della persecuzione razziale in Polonia nel 1943, è diventato ormai adulto, vive oggi a Rokland vicino a New York, in una graziosa villetta circondata da prati verdi. Si chiama Tvusi Nusbaum, fa il medico ed ha quattro bambine.

Biagi lo è andato a trovare e lo ha intervistato.

Possiamo quindi ascoltare e registrare una fonte orale che giunge fino a noi con la triplice mediazione del doppiaggio, della traduzione, della registrazione televisiva e successivamente con la quarta mediazione che è la nostra cassetta.

E qui mi limito ad aprire un discorso di tipo metodologico riguardante la natura e la qualità delle «fonti», quando esse siano un «frammento» e per di più un «frammento» non verbale, ma «visivo».

Ci fa certo piacere aver trovato come si dice «una contestualizzazione» che dovrebbe inquadrare e superare il frammento e più che mai sapere che quel bambino è riuscito a sopravvivere, che è diventato un professionista, che abbia quattro bambine e che intorno alla sua villetta ci siano i prati verdi.

Si dovrebbe provare un grande sollievo come per la fine di un incubo: che bellezza! Tutto è andato per il meglio. Pollicino non è morto nella pancia del lupo! La tragica immagine dovrebbe essere annullata, notevolmente attenuata o, ripeto, «superata». L’incubo di quella foto invece continua se la guardiamo in uno scambio, di nuovo inquietante, dei primi e dei secondi piani spaziali e temporali ed è come se tra il bambino di allora e l’adulto di oggi, che risponde alle domande del giornalista, ci fosse un rapporto sfocato quasi inesistente.

La foto, nonostante la contestualizzazione, non passa in second’ordine, non è un elemento «superato» da una fonte più aggiornata e più «vera». Nella sua frammentaria istantaneità ci comunica, con potenza insostituibile, una «verità» in cui precipita una «storia» generale e insieme individuale, una «verità» carica di un passato che nulla può cancellare, una verità in cui la nostra non svanita partecipazione emotiva ci fa «entrare».

La foto continua a scatenare la nostra rabbia e insieme la nostra costruttiva e creativa paura, pone problemi alla nostra operatività: di fronte a quanti e quali mostri Pollicino dovrà ancora alzare le mani solo e indifeso? No, tutto non è andato per il meglio, il negativo non è dialetticamente superato dal positivo perché tutto accade ancora, tutto potrà ancora accadere.

E allora: in che misura anche noi siamo oggi «dentro la storia»? Chi è il mugnaio che dovrà liberare Pollicino dalla pancia del lupo?

Questo è il materiale «chiave» da me portato che avrebbe dovuto aprire un discorso espresso dalla «metafora»: Pollicino nella storia.

Volevo suggerire un’attività operativa che schematicamente può individuarsi nei seguenti punti:

Uscire dall’immaginario della fiaba per percorrere i terribili viaggi che un bambino o un ragazzo ha realmente fatto.

Proporre una ricerca di materiali su chi nella storia c’è ma che «non fa notizia», una ricerca di materiali possibilmente ma non esclusivamente in prima persona, in cui colui che racconta riferendosi alla realtà immaginata sia un bambino, un adolescente, un giovane. Una testimonianza diretta o indiretta di partecipazione alla storia che sia contemporaneamente, se lo è, presa di coscienza, iniziazione, un diventare adulto.

La storia vista con l’occhio di un ragazzo vittima e/o protagonista, non nel senso del protagonismo deteriore, ma di chi partecipa sapendo e volendo partecipare ed anche di chi protagonista è stato nonostante abbia solo intravisto confusamente il perché della sua azione o addirittura di chi è entrato nella storia senza nemmeno intravedere il perché della sua azione.

Esplorare la validità metodologica di fonti non verbali e non scritte, come nel caso della foto in questione, fonte visiva, appunto, in cui lo «sguardo» sia la struttura portante non solo dell’emozione ma della «proiezione» di noi stessi nella storia e quindi della «partecipazione» che si prolunga dal passato al presente fino alla prefigurazione immaginaria del futuro.

Reperire materiali che, mentre ci coinvolgono come adulti, siano trasferibili, con ridottissima mediazione, in un lavoro per ragazzi nella scuola dell’obbligo.

Pubblicato su Cooperazione Educativa n. 8-9 Agosto Settembre 1984 e ripubblicato in "Allargare il cerchio" di Nora Giacobini (edizioni della Casa-laboratorio di Cenci)

Data ultima modifica: 27 aprile 2021