Ciao

Gino, L’ultimo saluto a Casa Emergency

Sabato 21, domenica 22 e lunedì 23 agosto, Casa EMERGENCY, la nostra sede a Milano, sarà aperta per chi vuole dare un ultimo saluto al nostro amato Gino.

• sabato 16 -22 • domenica 10 - 22 • lunedì 10 - 14

L’ingresso è libero e aperto a tutti da via Santa Croce 19. L’accesso e il numero di persone presenti all’interno della camera ardente sarà contingentato in accordo all’attuale normativa Anti Covid-19.

Gino Strada è stato fondatore, chirurgo, direttore esecutivo, l’anima di EMERGENCY.

“I pazienti vengono sempre prima di tutto”, il senso di giustizia, la lucidità, il rigore, la capacità di visione: erano queste le cose che si notavano subito in Gino. E a conoscerlo meglio si vedeva che sapeva sognare, divertirsi, inventare mille cose. Non riusciamo a pensare di stare senza di lui, la sua sola presenza bastava a farci sentire tutti più forti e meno soli, anche se era lontano. Ti vogliamo bene Gino.

Gino Strada, un partigiano dell’umanità. La sua scomparsa proprio quando l’Afghanistan torna nell’incubo talebano

Aveva denunciato i guasti dell’intervento armato, lo avevano bollato come “anima bella”. L’epilogo di un disastro annunciato è la conferma della bontà delle sue ragioni. Il ricordo del direttore de L’Espresso: «Era un leader naturale, un obiettore totale. Rifiutava l’idea di arruolarsi sotto qualunque bandiera»

Se n’è andato mentre l’Afghanistan torna al punto di partenza, come lui ha denunciato per venti anni, l’ultima volta questa mattina, sulla Stampa. «Questa situazione non sorprende nessuno che abbia una conoscenza dell’Afghanistan o almeno buona memoria. Mi sembra che siano sempre mancate», ha scritto Gino Strada nel suo ultimo articolo. Lui conosceva bene e ricordava. Ricordava che chi si era opposto venti anni fa all’intervento americano e atlantico era stato accusato di essere «un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella».

Lo avevano chiamato tante volte così, le sentinelle dell’esportazione del sistema occidentale in armi, i cupi guardiani della realpolitik che tradivano, loro sì, i valori della democrazia e le ragioni dell’umanità, per ritrovarsi oggi con questo pugno di macerie in mano, il disastro annunciato costato, cito i dati riportati da Gino, 2mila miliardi di dollari, 8,5 miliardi di euro per l’Italia, 241mila vittime, 5 milioni di sfollati.

Quando faremo la storia di questi venti anni dovremo chiederci chi sia stato più utile al terrorismo internazionale e chi no, e chi siano state le vere anime belle. Io preferisco, in questo momento di dolore, ritornare a una mattina a Firenze, al social forum di Firenze, novembre 2002. Quel giorno eravamo in tanti, tantissimi ad ascoltare il dottor Gino Strada, c’era una folla immensa all’incontro che anticipava la manifestazione finale del sabato pomeriggio. Aveva lavorato per anni con la Croce rossa in paesi in conflitto, in Pakistan, Etiopia, Perù, Somalia, Bosnia e naturalmente in Afghanistan, prima di fondare Emergency.

In quel momento il dottor Strada era ancora giovane, aveva 54 anni, sul palco sembrava occupare con la sua presenza ogni spazio, aveva il carisma immenso di chi è rimasto al suo posto. Aveva le mani grandi con le dita sottili usava per operare, risanare, ricucire. Le mani parlavano, denunciavano, gridavano. Sembrava uscito da una pagina di Hemingway. Qui si parlava di bombardamenti chirurgici, disinfettati e puliti, lui vedeva arti lacerati, volti sfigurati, la mostruosità, l’orrore.

Era un leader naturale per quel popolo che rifiutava la normalità della guerra all’alba del nuovo millennio, l’unico possibile. Ma lui rifiutò sempre ogni incarico e qualsiasi candidatura. Non avrebbe mai accettato di indossare una divisa o di finire sotto un simbolo. Non si è mai arruolato sotto nessuna bandiera, di nessuno Stato, di nessuno schieramento politico, di nessun partito, fosse stato anche il suo. Non poteva essere strumentalizzato da nessuno, anche se in tanti hanno cercato di farlo. Non si poteva usare con lui, oggi meno che mai, una di quelle metafore belliche che lui respingeva, come quelle sparse a piene mani nei primi mesi del Covid-19, a proposito di guerra da vincere, in prima linea, caduti sul fronte, trincee in corsia e così via. E per questo mi ha colpito che proprio questa mattina avesse scritto che solo chi soffriva tra la popolazione afghana e chi lavora ad esempio negli ospedali e tra lo staff di Emergency potessero essere definiti «veri “eroi di guerra”». Era una rivendicazione: ecco da che parte sono, ecco da che parte sono sempre stato.

Gino non è mai stato neutrale. È stato un uomo straordinariamente di parte in un’epoca di mezze stagioni. E dunque divisivo, discusso, attaccato dai cultori dello stato di guerra che non è una questione da militari ma la sintesi di tutti i mali: l’intolleranza, la chiusura verso il diverso, la concezione della politica come ricerca di nemici da eliminare. «Non sono pacifista, sono contro la guerra», non ha mai smesso di ripetere.

Un obiettore totale. E insieme un combattente, tenace, fiero, indomabile. Era da una parte sola: le persone in carne, ossa, sangue. Ferite da asciugare, piaghe da ripulire. I corpi da salvare. E lo strazio dell’anima che non sarà sanato mai. Gli inermi, gli innocenti, le vittime civili e indifese dei bombardamenti chirurgici, dei cinismi di Stato, delle opinioni pubbliche da manipolare. Essere da quella parte non significava fare l’anima bella o la pura testimonianza, ma fare politica, nella forma più radicale. Battersi contro le spese militari, contro i governi che ingannano i loro popoli, contro la privatizzazione della sanità, che è come privatizzare la vita, la più grave e iniqua forma di disuguaglianza. La sua ultima battaglia è stata l’accesso al vaccino universale per tutti.

«Anche quando questa pandemia sarà finita dovremo continuare a lottare perché la salute rimanga un diritto umano. Essere curati è un diritto universale e un bene comune, una responsabilità pubblica».

Ho visto Gino Strada l’ultima volta quasi un anno fa, a fine settembre, in un luogo simbolico, nell’archivio dell’ospedale Policlinico di Milano, Ca’ Granda, dove furono accorpati i centri di cura dal primo aprile 1456, l’embrione della sanità pubblica. Eravamo circondati da faldoni, con tutta la lunga storia della medicina lombarda. E in uno dei fascicoli c’era anche lui, c’era la scheda del dottor Gino Strada, che aveva cominciato da lì come giovanissimo medico chirurgo, la prima sede in Europa di specializzazione in chirurgia d’urgenza. Eravamo lì per registrare il primo momento del festival di Emergency organizzato in collaborazione con l’Espresso. Le mani erano diventate ossute, la voce più flebile, gli occhi incavati ancora più acuti e ancora più buoni. Sembrava fragile, era inflessibile.

Alla fine della nostra conversazione mi venne in mente di chiedergli di spedire un messaggio al dottor Gino Strada giovane che da lì era partito. Mi rispose:

«Ho fatto il mio lavoro di chirurgo tutta la vita, ma sono sempre riuscito a stare fuori dalla logica del profitto. La grande, impareggiabile soddisfazione di aver dato una mano a qualcuno, questa gioia è il prezzo per il medico».

Con Emergency ha dato una mano a decine di milioni di pazienti curati dal 1994 in poi in 17 paesi in guerra, attorno a Emergency ha costruito un movimento di attivisti che da oggi ha una responsabilità in più. Io ricordo la paziente autoironia con cui portava addosso l’ammirazione di tutti quelli che lo consideravano un profeta, l’unico profeta laico che abbiamo conosciuto. La gentilezza, la disponibilità con cui ha sempre risposto a ogni richiesta, senza risparmiarsi, perché la vita si getta nel mondo, si spende, si consuma. Anche questa una lezione che oggi ci affida Gino Strada, medico, fratello nostro, partigiano dell’umanità.

Un articolo di Marco da Milano - Espresso Repubblica 13 08 2021

Data ultima modifica: 21 agosto 2021