Il libro: "Chiamami sottovoce"

La farfalla delle gentilezza: il commento

Quando i bambini restarono chiusi in casa per mesi o per anni… No, non parlo della pandemia, ma di quello che è successo tra gli anni sessanta e ottanta a circa 30.000 bambini, e forse il numero è anche sbagliato per difetto.

Erano i figli dei lavoratori stagionali italiani in Svizzera. Chi aveva un contratto stagionale o annuale non aveva diritto al ricongiungimento familiare, e così le famiglie si dividevano, lasciando i bambini con nonni e parenti rimasti in Italia, oppure li lasciavano in collegi di frontiera dove i bambini soffrivano la separazione dai genitori, ma subivano anche episodi di violenza e maltrattamenti, come ricordano ancora oggi i bambini, ormai adulti, ospiti della Casa del Fanciullo a Domodossola.

Oppure, per quei genitori che non sopportavano l’idea di separarsi dai loro figli (come non capirli!), l’unica possibilità era portare i bambini in Svizzera di nascosto. Clandestini.

Passavano il confine chiusi nel bagagliaio delle macchine, e poi diventavano bambini fantasma, reclusi in casa, senza mai uscire, senza andare a scuola. Senza andare al parco, senza incontrare altri bambini. Senza fare una visita medica e senza nessuna assistenza sanitaria. Senza affacciarsi alle finestre. Senza far rumore. Senza essere bambini.

Ecco. Forse questa è la parte più terribile: bambini costretti a rinnegare la loro dimensione infantile, bambini che non potevano cantare, ridere, saltellare, giocare, cadere, gridare, piangere. Nemmeno camminare, altrimenti i vicini del piano di sotto avrebbero sentito dei passi sospetti.

Bambini che non dovevano più essere bambini, ma restare silenziosi e clandestini, nel terrore di essere scoperti o denunciati alla polizia degli stranieri dai vicini di casa e quindi espulsi.

Perché la politica migratoria svizzera aveva bisogno della manodopera per scavare le gallerie, per lavorare in fabbrica, nei ristoranti, negli alberghi, ma non voleva “sprecare” soldi e assistenza per i bambini, inutili all’economia perché non ancora produttivi.

Quindi i lavoratori stagionali (e la maggior parte erano italiani) avevano poche tutele e pochissimi diritti: ad esempio non potevano cambiare datore di lavoro o domicilio, in caso di malattia non venivano pagati, potevano essere licenziati con un brevissimo preavviso, per non parlare del sussidio di disoccupazione, a loro precluso, ma soprattutto non potevano avere la loro famiglia vicino.

Tutto questo portava gli immigrati italiani a fare scelte dolorose, incomprensibili per alcuni, ma di fatto a rubare l’infanzia e la serenità ai loro figli, costretti a vivere nell’ombra e nel silenzio.

Quello che è incredibile è che tutto questo è capitato solo pochi anni fa, nel cuore della nostra vecchia Europa, quando eravamo noi a dover lasciare il nostro paese, alla ricerca di un futuro migliore. Futuro migliore che i nostri emigranti hanno effettivamente donato all’Italia, facendola crescere, proprio grazie alle rimesse che loro inviavano dai paesi stranieri.

Solo nel 2002, con l’entrata in vigore dell’accordo sulla libera circolazione delle persone tra Svizzera e Unione Europea, è stato finalmente soppresso lo statuto di lavoratore stagionale in Svizzera, con tutte le discriminazioni e le sofferenze che ne sono derivate.

Questa è la storia dei bambini nascosti, ma non deve restare nascosta anche la storia. Bisogna parlarne per dare giustizia a quei bambini che hanno avuto l’infanzia rubata e che hanno perso la scuola, la spensieratezza e il sorriso per colpa di una legge tanto ingiusta quanto disumana. Con la speranza che non succeda mai più.


Incontro con l’autrice Nicoletta Bortolotti

In Svizzera, negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, la legge vietava agli emigranti italiani (ma anche spagnoli, greci, portoghesi, turchi) con un impiego stagionale di portare con sé la famiglia.

Circa quindicimila bambini italiani, fatti entrare come clandestini nella Confederazione elvetica dai genitori emigranti, sono stati tenuti rinchiusi in soffitte e cantine.

“Non piangere, non ridere, non giocare, non fare rumore”

veniva detto loro. “Chiama sottovoce.” Molti di quei bambini invisibili seguitarono anche da adulti a chiamare sottovoce. Si aggiungeva inoltre il dramma dei figli lasciati negli orfanotrofi di frontiera, a Briga, Domodossola, Como, o affidati alle cure di nonni e zii rimasti in Italia, che hanno conosciuto i genitori solo da adulti.

Le tre voci narranti, due in prima persona e una in terza, che compongono Chiamami sottovoce sono affiorate a strati, nel tempo, simili ai sedimenti geologici della galleria più lunga del mondo, quella del Gottardo, palazzo d’acqua da cui sgorgano il Reno, il Ticino, il Rodano e la Reuss. Al tunnel furono strappate le pietre come brani di carne viva, per scavare la nuova “via delle genti”, la via più breve dal Sud al Nord d’Europa.

Proprio l’elemento che rappresentava un confine invalicabile tra i popoli è emblema dell’abbattimento dello stesso confine. E nel suo significato simbolico richiama quasi un canale uterino in cui i protagonisti intraprendono un viaggio nel tempo e nello spazio e in se stessi.

Il percorso di scrittura e riscrittura del romanzo è stato ripido e in alcuni punti accidentato, trovavo strati di roccia dura. Ho svolto un’approfondita ricerca storica e ho camminato per lunghi anni insieme ai miei personaggi, lasciandoli accomodare dentro di me, risuonare nel silenzio.

Nicole Christen ha quarantacinque anni, vive a Milano e fatica a radicarsi nel reale. Alla morte della madre scopre di avere ricevuto in eredità la Maison des roses, la casa in montagna dove si era trasferita con la famiglia quando il padre lavorava come ingegnere al traforo del San Gottardo.

Cos’è una casa? si chiede Michele Moro, il bambino nascosto, ormai prossimo all’epilogo. È il luogo dove tu sei o dove sei tu? Il luogo dove abiti o dove alberga l’interiorità?

Tornando alla dimora dimenticata, Nicole disseppellisce il passato come un fossile, intrappolato fra quarzi e licheni. Da bambina, nella casa in pietra accanto alla loro, infatti, aveva scoperto Michele, l’amico d’infanzia con cui giocava e disegnava.

Viveva nascosto nella soffitta dell’affittacamere Delia Pizzorno per i nove mesi in cui il padre, stagionale, lavorava anche lui alla galleria. Dov’è scomparso Michele? Cosa ne è stato di lui e della sua famiglia?

Nel tentativo di riannodare i fili della memoria e di abbracciare per l’ultima volta l’anziana Delia, Nicole scopre una verità che mette in crisi ogni certezza.

Mi scrivono da molte parti d’Italia ex bambini nascosti, ex bambini-pacco lasciati ai nonni o agli zii, che hanno conosciuto i genitori da grandi, ex bambini orfani, il cui dolore non li ha mutati del tutto in adulti, ma li ha fissati per sempre nella condizione di “ex bambini”. Mi scrivono che grazie a questo romanzo hanno scoperchiato la scatola della memoria.

Chiamami sottovoce è allora forse anche un racconto sulla memoria di un’Italia ferita e ancora poco illuminata, narrata, pacificata; sulla memoria di un eden alpino che respinge e accoglie, di un’amicizia di cui durerà un’incurabile nostalgia; e, infine, sulla memoria che, se correttamente recuperata, permette, come scriveva lo storico Marc Bloch, di comprendere il presente. Ricordare per dimenticare.

Un tempo in alcune discoteche si leggeva: “Vietato entrare ai cani e agli italiani”. Oggi le persone che approdano sulle coste del Sud Europa vengono chiamate “migranti” e non “emigranti”. La parola “migrante” evoca l’immagine di uno stormo, che si sposta da un territorio all’altro qualora le risorse non garantiscano più la sopravvivenza. Evoca un popolo senza identità, definito solo dal proprio “migrare”, dall’essere in cammino. Forse, anche nelle fini increspature del linguaggio, s’infiltra come muffa la volontà di operare distinzioni fra “noi” e “loro”, di allontanare dalla coscienza, per non assegnare un volto e un nome. Come in passato non l’ebbero i nostri bambini nascosti».

Chiamami sottovoce Incontro con l’autrice

Data ultima modifica: 30 novembre 2021