SUL TERZO GRADINO

Le tante storie di ragazzi e ragazze delle periferie urbane che abbandonano la scuola o vivono condizioni di segregazione scolastica – invitati a passare da istituti e indirizzi scolastici ritenuti prestigiosi ad altri considerati sempre meno impegnativi -, ricordano che serve prima di tutto creare interesse per l’apprendere. Insegnanti ed educatori dovrebbero imparare a mettersi accanto a quei ragazzi. È il desiderio di conoscenza l’energia collaterale indispensabile, altrimenti è come ostinarsi sui rubinetti quando manca l’acqua nell’acquedotto

Un’amica preside di una scuola media mi ha raccontato che in un questionario rivolto agli alunni alla domanda su quale luogo della scuola fosse il preferito, un ragazzo ha risposto: «Mi trovo bene sul terzo gradino delle scale, prima che suoni la campanella». Lei gli aveva chiesto perché proprio sul terzo gradino e lui aveva spiegato che il terzo gradino è il più alto prima del pianerottolo: da quella posizione si possono vedere tutti i compagni e ancora non si è visti dalla custode. Davide invece non è riuscito a trovare un posto dove star bene nella mia scuola. A dire il vero un “terzo gradino” non l’ha neppure cercato. Si era iscritto in prima, “certificato” dalla media.

Certificato per cosa? Al mio primo incontro non l’avrei saputo dire: non era un mio alunno e io l’ho conosciuto da vicepreside, perché dopo due mesi di scuola non comunicava, non si apriva, mostrava carenze di ogni tipo; necessitava, almeno a parere dei suoi insegnanti, di un “riorientamento”. Oggi direi che era affetto da mal di scuola: quella ben conosciuta allergia che di norma consiglia il soggiorno nei professionali.

Davide è un ragazzo dallo sguardo vispo, curioso verso la scuola, ma di quella curiosità tipica di un turista in viaggio in un paese molto diverso dal suo. Non ho mai avuto la sensazione che considerasse l’esperienza scolastica come qualcosa che appartenesse alla sua vita reale. Troppo distante dal suo mondo: zona Piagge, periferia di Firenze; madre che lavora tutto il giorno, padre dentro e fuori dal carcere; la sua stanza più grande è il marciapiede della strada, condiviso con gli amici.

Non è una storia originale, d’altra parte i “casi” delle scuole raramente corrispondono a ragazzi o ragazze con storie particolari, più spesso assomigliano a problemi di interfaccia tra un organismo e un ambiente divisi da una superficie che non traspira.

Problemi di membrane divenute impermeabili. Ecco, era come se Davide stesse nel suo banco, chiuso in un “sacchetto di plastica”. Per farlo sentire meno solo la madre fu convinta a chiedere di spostarlo dall’indirizzo molto qualificato dov’era alla specializzazione di meccanico motorista la più “umile” dell’istituto. Ma dubito che dall’interno del suo sacchetto abbia colto una qualche differenza, se non quella che nella nuova classe “i ragazzi nel sacchetto” erano molti di più.

Quando si parla di segregazione scolastica io penso a quella di prima dove la scuola era solo una messa in scena. Una porta che si apriva e rimetteva i ragazzi nei loro quartieri, accanto ai loro amici di sempre. Amplificando gli atteggiamenti di gruppo che coprono le fragilità di ciascuno offrendo un’identità collettiva facile da indossare.

Di fatto, dopo poco lo spostamento Davide me lo spedivano in presidenza un giorno sì e un giorno sì… Verso gennaio la madre lo ha portato nel corso della formazione professionale regionale.

Ho chiesto sue notizie al responsabile del Centro, che mi ha detto di aver incontrato Davide in corridoio: era stato espulso dalla classe perché nel questionario che chiedeva cosa volessero fare di lavoro nella loro vita lui aveva risposto che da grande avrebbe fatto il mestiere del padre: il ladro. Indubbiamente una brutta provocazione la sua, ma c’è da riflettere sul perché tra le tante classi che ha girato, nessuno sia riuscito a convincerlo a mettersi davvero in gioco, com’è che non abbia trovato niente di importante per sé da chiedere alla scuola.

Già, un bel problema cercare d’insegnare qualcosa a chi non sa che farsene. Le storie come quella di Davide confermano che non esiste una scuola adatta a chi di scuola non ne vuole.

Serve creare interesse per l’apprendere, è il desiderio di conoscenza l’energia collaterale indispensabile, altrimenti è come ostinarsi sui rubinetti quando manca l’acqua nell’acquedotto.

Oggi torna di gran moda dare la responsabilità alle nuove generazioni, giovani sdraiati e indifferenti, oppure all’opposto responsabili della microcriminalità che sembra il primo problema del Paese. Meglio allora rispolverare le ricette del passato nascondendo che al tempo della scuola tutta “Ordine e Disciplina” i ragazzi come Davide erano fuori dai giochi già prima della fine della media, e pace per loro.

Tante volte noi insegnanti ci troviamo di fronte a ragazzi e ragazze “sigillati” nei loro sacchetti di plastica, apparentemente impermeabili a qualunque approccio eppure nella scuola, accanto a tanti fallimenti, non mancano le tracce di sacchetti fatti a brandelli e alunni che hanno alzato la testa verso orizzonti che senza la scuola nemmeno intravedevano.

Nella scuola di tutti e tutte, nella scuola della Costituzione, siamo chiamati non solo a regolare il rubinetto ma anche ad avventurarsi lungo i tubi nei tanti casi in cui è l’acqua che non arriva. Quello che è fondamentale per l’impresa, è imparare a pensare come si pensa dall’interno del sacchetto, e sapersi sedere sui terzi gradini insieme ai Davide.

Un articolo di Giuseppe Bagni già Presidente Nazionale CIDI 03 2024 comune-info.net

Data ultima modifica: 14 maggio 2024