“Se bastasse mettere un like su una bella immagine su _Instagram _a far scoppiare la pace
, ieri i carri armati israeliani non sarebbero entrati in quello che resta della Striscia di Gaza : Rafah.
E invece lo hanno fatto. Proprio mentre a milioni cliccavamo soddisfatti su una immagine molto evocativa, probabilmente creata con l’intelligenza artificiale non si sa bene da chi : una tendopoli senza fine in un deserto con alcune tende che formano la scritta a caratteri cubitali “All Eyes on Rafah”, tutti gli occhi sono su Rafah ; come a dire, vi stiamo guardando, forze armate israeliane, il mondo vi sta guardando, questa volta non potete fare quello che volete. E invece lo stanno facendo.
Noi li guardiamo, attraverso i social network, e loro avanzano nell’ultima cittadella che dà rifugio a più di un milione di profughi palestinesi.
Lo sappiamo da tempo, i followers non sono soldati e le rivoluzioni non si fanno con uno smartphone, soprattutto se ti limiti a seguirle dal divano di casa e pensi di dare una mano con un like.
Eppure su _Instagram_ finora una mobilitazione politica di queste dimensioni non si era mai vista : in meno di due giorni l’immagine “All Eyes on Rafah” è stata condivisa 50 milioni di volte e mentre scrivo sta accelerando. Non è un caso.
Sono mesi che sui social network l’atteggiamento verso quello che accade in Medio Oriente è completamente diverso da quello che c’è negli studi televisivi e sulle pagine dei grandi giornali.
E questo non succede perché i giovani che stanno sui social « stanno con Hamas e sono antisemiti », queste sono idiozie : accade perché su _Instagram_ e su _Tik Tok_ tutti hanno visto le immagini postate direttamente da Gaza di quello che succede dal giorno dell’invasione della Striscia, le foto e i video di un massacro quotidiano di civili inermi che per mesi l’informazione ufficiale ha inutilmente coperto, negato, minimizzato, giustificato : « C’è stato il 7 ottobre… ».
Il risultato è che sono mesi che milioni di persone in tutto il mondo manifestano solidarietà per la causa palestinese con una intensità mai vista prima.
La bandiera palestinese è diventata la coreografia di curve intere negli stadi (per esempio in Scozia), oppure è stata sventolata da un gruppo di maratoneti negli Stati Uniti ; ha aperto la stagione lirica di grandi teatri (stavolta in Italia), è diventata la scalinata di paesini di ogni tipo, o la facciata di edifici ; e ancora il vestito di Cate Blanchett sulla croisette del Festival di Cannes e il tributo musical di Eric Clapton alla Royal Albert Hall di Londra.
Queste cose sui giornali probabilmente non le avete viste. Perché questa è una guerra lacerante dove a fare la parte del cattivo non c’è « il macellaio Putin », ma un pezzo del mondo occidentale, siamo noi, esattamente come accadde con la guerra in Vietnam.
“All Eyes on Rafah” non nasce oggi, ma a febbraio : è la frase pronunciata da un dirigente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità quando era chiaro che Israele non si sarebbe fermata e avrebbe attaccato anche l’ultimo rifugio palestinese. Allora “All Eyes on Rafah” è diventato un hashtag ; poi è finito negli striscioni degli studenti che hanno occupato i campus americani e francesi e le nostre università. E ora diventa una calamita digitale per mettere assieme un sentimento dilagante. Non antisemita, non per Hamas : ecco, se un effetto tutto ciò può averlo non è fermare i carri armati e i bombardamenti, ma aprire gli occhi al popolo israeliano. È una speranza.”
Estratto da un articolo di Riccardo Luna su La Stampa 30 05 2024