Nell’universo classista delle ripetizioni private

“Ci sono dei professori che fanno ripetizioni a pagamento. Invece di rimuovere gli ostacoli, lavorano a aumentare le differenze. La mattina sono pagati da noi per fare scuola eguale a tutti. La sera prendono denaro dai più ricchi per fare scuola diversa ai signorini. A giugno, a spese nostre, siedono in tribunale e giudicano le differenze. Non è che il babbo di Gianni non sappia che esistono le ripetizioni. È che avete creato un’atmosfera per cui nessuno dice nulla. Sembrate galantuomini”.

Nel 1967 don Lorenzo Milani e i suoi ragazzi della scuola di Barbiana in Lettera a una professoressa raccontavano una scuola classista che discriminava i figli dei contadini (i Gianni) dai figli dei dottori (i Pierini); a distanza di cinquant’anni esatti l’accusa potrebbe essere identica e resterebbe ugualmente inascoltata.

Da insegnante di liceo mi capita spesso di partecipare ad assemblee sindacali e politiche, dibattiti e convegni, e ogni volta che pongo il problema delle ripetizioni è come se nominassi un tabù. La maggioranza dei colleghi che ho conosciuto dà ripetizioni; in alcuni casi si tratta di una sorta di doppio lavoro, in altri è diventato – in termini economici e di tempo – il lavoro principale. Eppure il tema delle ripetizioni private non ha interessato nessuna delle proteste che hanno accompagnato la legge Gelmini o quella sulla Buona scuola.

Di fronte a riforme che non hanno affrontato per nulla la questione della remunerazione dei docenti – il contratto nazionale è fermo da dieci anni – le ripetizioni sono per molti insegnanti, e per quelli precari ancora di più, una specie di salvagente economico e allo stesso tempo un limbo, una galassia gassosa. Metterle in discussione, ripensarle, sembra impossibile.

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Data ultima modifica: 30 giugno 2019