BAMBINI DOPO O BAMBINI SEMPRE?

L’infanzia e l’adolescenza ai tempi del Covid, Intervista al prof. Raffaele Mantegazza, Docente di Scienze umane e pedagogiche, Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Milano-Bicocca

Cambierà tutto, niente sarà come prima. Ce lo ripetiamo ormai da settimane, continuiamo giustamente a dire che il Coronavirus segnerà uno spartiacque nella storia dell’umanità, ma forse possiamo anche iniziare a pensare a cosa resterà immutato, o comunque a quali saranno le continuità; perché l’umanità dopo il Covid non dovrà reinventarsi proprio da zero.

Avremo ancora i bambini e i ragazzi: anzi saranno più vicini di prima, proprio perché in questi mesi abbiamo addossato loro responsabilità enormi: abbiamo chiesto loro di non andare a scuola, di non giocare fuori casa, di restare reclusi, il tutto per un virus che riguardava soprattutto i loro nonni. Abbiamo invertito il naturale rapporto pedagogico, chiedendo ai bambini e ai ragazzi di prendersi cura di noi adulti, di fare sacrifici per noi. Ma l’infanzia resta infanzia e l’adolescenza resta adolescenza, e avere sentito una pediatra affermare che per quanto riguarda le misure di prevenzione “i bambini devono essere trattati come gli adulti” è stata una delle pagine più tristi di questa già triste storia.

I bambini non sono come gli adulti, con buona pace della pediatria che già nel nome della sua specializzazione ha il segno di questa differenza: paidos. La prima cosa che dovremo garantire ai bambini è il recupero della loro infanzia. Dobbiamo fargli reimparare a giocare, ad abbracciare, a sporcarsi: sì, a sporcarsi, perché solo chi ci sa sporcare sa lavarsi, e l’igiene, se non è la risposta adattiva ed evolutiva a un mondo che ci sporca è una paranoia inumana e innaturale. I bambini dovranno essere restituiti a quella infanzia aperta e all’aperto che già prima il delirio degli schermi stava loro sottraendo e che la reclusione rischia di eliminare per sempre dalla loro infanzia; sì, per sempre, perché chi afferma che “due mesi chiusi in casa non sono poi tanti” non ha capito niente dell’infanzia, dei suoi tempi, dei suoi ritmi; e soprattutto dei suoi diritti.

L’infanzia potrà sopravvivere al virus se ci porterà a riflettere seriamente su cosa significa essere bambini oggi, nel mondo in cui migliaia di aerei volano sulle nostre teste contemporaneamente apportando un inquinamento che si fa anche fatica a calcolare, il problema ecologico è arrivato al punto di non ritorno e la fragilità è passata dall’essere un concetto filosofico leopardiano all’essere sperimentata tutti i giorni con angoscia: non che prima non esistesse, anzi era la connotazione del nostro essere, la dimensione più profonda della condizione umana, solo che pareva essersene accorto solo Leopardi.

E l’adolescenza, anch’essa, dovrà essere ripensata, magari iniziando a pensare a reparti differenziati per adolescenti negli ospedali, visto che sappiamo ormai da un secolo che si tratta di un’età della vita differenziata e specifica. I ragazzi dovranno reimparare a uscire di casa da soli, a vivere i gesti amorosi come un bacio sulla bocca con l’unica paura del rifiuto o della brutta figura e non di un virus. Amarsi, abbracciarsi, baciarsi sono gesti naturali che, paradossalmente, una cosa naturale come un virus ci ha fatto abbandonare. Dovremo ricordarlo a noi e ai nostri ragazzi.

Ci aspetta un nuovo compito di tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, e se non riusciamo nemmeno a metterci d’accordo sulla possibilità di far uscire i bambini dieci minuti al giorno durante l’emergenza (cosa che, peraltro, accadeva anche nella Sarajevo assediata; e forse sarebbe anche il caso di finirla con la stupida e impropria metafora bellica quando si parla del virus), se non riusciamo a garantire ai bambini quello che è un loro specifico diritto, allora siamo messi molto male.

I bambini saranno bambini dopo, come sono stati bambini sempre; ma come vivranno la loro infanzia dipende da noi. Siamo di fronte alla prima generazione che porterà sulla sua pelle, nel processo di crescita, la memoria cicatrizzata del virus. Se sarà come una sbucciatura su ginocchio, che poi rimane solo come brutto ricordo, o una ferita aperta dalle conseguenze ferali dipenderà prevalentemente da noi.

Intervista a cura di Paola Scaccabarozzi 01 04 2020

Data ultima modifica: 2 aprile 2020