Luca Malgioglio: "un percorso lento e graduale"

Silvia Romano è stata per un anno e mezzo nelle mani dei suoi sequestratori; questo non può considerarsi semplicemente come un evento traumatico, ma è una sommatoria ripetuta e stratificata di eventi traumatici, che ha sicuramente segnato a fondo questa ragazza poco più che ventenne.

Lei stessa avrà bisogno di molto tempo per elaborare questa terrificante esperienza, per capire e per dare un senso a quello che le è accaduto; una persona di media intelligenza comprende che quello che lei stessa può dire, dopo diciotto mesi di prigionia - dopo i terrori, le violenze psicologiche, lo smarrimento, la privazione degli affetti e l’isolamento spaventoso che ha dovuto sopportare per un periodo smisurato -, va preso con molta prudenza, lasciando tempo al tempo, perché ciò che è successo si chiarisca, in un percorso che non potrà che essere lento e graduale.

Se a ciò si aggiunge che nessuno di noi sa nulla di quello che è capitato davvero in questi mesi, e che le stesse notizie sulla liberazione sono provvisorie e parziali, stupisce che cinque minuti dopo questa liberazione sia partito un attacco mediatico basato sul nulla, su un odio che lascia senza parole, riversato sulla vittima invece che sui carnefici, su un indignarsi e linciare a partire da un susseguirsi di notizie, calunnie e ipotesi che non hanno alcuna conferma, su uno squallido meccanismo già sperimentato per la propaganda politica.

Se fosse stato rapito e poi rilasciato un imprenditore che lavorava in Kenya, tutti avremmo provato un senso di sollievo, e solo dopo aver saputo qualcosa di più avremmo cominciato a interrogarci su tutte le altre cose:

tra l’altro, avremmo capito che, se si era convertito all’islam, lo aveva fatto in condizioni particolarissime, che andavano quanto meno prese in considerazione con calma (anche e soprattutto da chi le aveva subite), con la dovuta gradualità e delicatezza; ci saremmo fatti molte domande, certo, ma qualunque idea avessimo avuto a proposito della conversione e del contesto in cui era maturata, non ci sarebbe mai venuto in mente di considerarla, paradossalmente, una colpa della vittima.

Invece qui tutto è diventato una colpa: il fatto che Silvia si sia recata in Kenya non per fare un lavoro per sé (il che sarebbe stato legittimo, beninteso) ma per aiutare dei bambini (saperlo stupirà qualcuno, ma sono tali anche se neri e non italiani), si è trasformato in un’aggravante, un segno di "fatuità", di narcisismo, un essersi esposta immotivatamente al pericolo.

Ecco, questo rovesciamento paradossale e perverso per cui la generosità e la voglia di aiutare gli altri diventano un male - oltre all’incredibile accusa di essere una "terrorista islamica", rivolta a chi non ha avuto ancora nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa le sia capitato - fa pensare a quanto rancore preventivo e a quanta incapacità di mettersi nei panni delle altre persone alberghi in alcune menti.

Investiti da questa ondata di odio, di risentimento da branco delirante, cieco e sanguinario, che ha una gran fretta di trovare un bersaglio su cui scaricarsi, non abbiamo nemmeno potuto manifestare la gioia per una vita preziosissima che torna a noi...

Luca Malgioglio

Data ultima modifica: 14 maggio 2020