IL GIORNO DELLA MEMORIA NEL TEMPOO DELL’OBLIO

IL GIORNO DELLA MEMORIA NEL TEMPO DELL’OBLIO

E’ possibile fare appassionare ragazze e ragazzi alla storia?

Una insegnante di Orvieto ha raccontato che un giorno un suo allievo le ha domandato: “Perché dovrei studiare il passato se io vivrò nel futuro?”

Sembra una domanda sciocca e banale, ma se proviamo a prenderla sul serio, forse possiamo provare a capire perché, da dieci anni, oltre il 97% dei ragazzi non sceglie la traccia storica all’esame di maturità.

L’abolizione di quella traccia ebbe un valore simbolico tale da suscitare scandalo e scalpore nel 2019, innescando una raccolta di oltre 50.000 firme tra intellettuali e cittadini.

Ma se vogliamo cercare strade per provare a rivitalizzare l’incontro tra i ragazzi e la storia, credo non basti accontentarsi del ripristino di quella prova, ma sia necessario porci un bel po’ di questioni che riguardano la formazione di noi insegnanti e il funzionamento di scuole e Università.

Un contesto nemico della storia

Lo scenario culturale e antropologico in cui si muovono gli studenti oggi rende loro assai difficile considerare la Storia come un bene comune. Negli ultimi anni il 27 gennaio moltissime classi dedicano tempo e attenzione al giorno della memoria e questo è certamente un bene, soprattutto se l’argomento viene approfondito a partire da materiali di qualità, sapendo suscitare approfondimenti e discussioni a cui ragazze e ragazzi siano chiamati a partecipare in prima persona.

Resta il fatto che salvo che per ristrette minoranze colte o fortemente politicizzate, ho la sensazione che altre date non ricordate nella scuola come il 1° maggio, il 25 aprile o il 2 giugno non dicano più nulla a bambini e ragazzi.
 Nelle famiglie regna una pressoché totale afasia riguardo alla storia e il racconto orale di fatti accaduti alle generazioni precedenti si è talmente affievolito da essersi spento, anche perché i genitori sono nati in anni ormai lontani dalle tragedie della guerra, che hanno sempre portato con sé la necessità di essere ricordate e narrate.

La Storia con la S maiuscola, venerata dalle organizzazioni di massa e dai movimenti collettivi del secolo scorso, dagli anni Ottanta si è rapidamente trasformata in oggetto polveroso di cui disfarsi. La conseguenza è che genitori vissuti nell’ultimo trentennio non considerino più la narrazione storica come terreno fertile per l’educazione dei figli.

La mancanza di curiosità storica e lo smettere di interrogarsi sul passato non va dunque addebitata ai ragazzi, come spesso si fa, ma piuttosto al modo in cui la gran parte di noi adulti ragioniamo sul presente, senza la capacità di vederne lo spessore temporale che potrebbe aiutarci a comprendere meglio ciò che accade nel mondo e, forse, ad avere un po’ più di lungimiranza.

La povertà dei libri di testo

Molti libri di testo che circolano nelle scuole inferiori e superiori illustrano ancora la storia in modo lineare e riduttivo, privilegiando guerre ed espansioni di imperi a una più complessa e articolata storia della cultura, delle culture, che permetta a bambini e ragazzi di comprendere come arte, musica, architettura, lingue, economia e scoperte scientifiche, insieme al trasformarsi delle istituzioni e all’altalenante espansione dei diritti plasmino le condizioni umane nei diversi continenti. Così la storia che si insegna troppo spesso risulta senza colore e senza sapore, dunque senza senso.

Ho avuto la fortuna di essere stato allievo di Emma Castelnuovo alle medie e nel suo insegnamento ogni regola e teorema matematico lei lo collegava alla storia, a chi lo aveva intuito e dimostrato. E’ con lei che ho imparato a 12 anni che Archimede era in corrispondenza con i matematici della biblioteca di Alessandria e che le cifre posizionali che rivoluzionarono la nostra relazione con i numeri ci è arrivata dal mare, perché il Mediterraneo è sempre stato luogo ricchissimo di scambi culturali e ha permesso agli arabi di portare fino a noi le scoperte fatte da matematici indiani.

Ma perché la storia trovi senso nella scuola si deve nutrire e intrecciarsi con scienza e arte, letteratura e musica, statistica e demografia, che tanto hanno da dirci sul mondo che è stato e che verrà.

Per far questo, tuttavia, noi insegnanti dovremmo avere tempi e luoghi in cui incontrarci, discutere, confrontarci su ciò che andiamo proponendo ai ragazzi, mentre nell’ordinamento attuale della scuola solo noi insegnanti di scuola primaria abbiamo due ore settimanali dedicate a una programmazione comune, necessaria a mio avviso in ogni ordine di scuola.

La prima questione riguarda dunque come intrecciare alla storia le diverse discipline. La seconda riguarda la preparazione storica che abbiamo noi insegnanti. Quale e quanta storia abbiamo studiato, infatti, all’università? Pensiamo sia possibile, ad esempio, comprendere qualcosa del ‘900 senza avere studiato e conoscere almeno i rudimenti della storia della fisica? Senza comprendere la portata che ha avuto la rivoluzione di Kandinsky nella pittura?

Quale formazione storica abbiamo noi insegnanti?

Ho la netta sensazione che la storia, da tempo avvilita e dimenticata nella società, non ha il respiro che merita neppure nelle università dove ci formiamo noi insegnanti, tanto che ben pochi tra i giovani docenti che arrivano oggi nelle scuole conoscono il ricchissimo dibattito storiografico che si è svolto negli ultimi decenni.

La relazione tra microstorie e storia, l’apporto della storia orale, la complessità come paradigma indispensabile per affrontare grandi nodi concettuali è ancora confinata in circoli ristretti e raramente alimenta la prima formazione e la formazione in servizio di noi docenti.

A Barbiana, oltre 50 anni fa, Don Lorenzo Milani proponeva ai suoi ragazzi di confrontare ciò che scrivevano il Saitta e lo Smith con ciò che raccontavano della guerra i loro genitori e nonni analfabeti, mandati a combattere e morire in trincea.

Oggi che il mondo popola le nostre classi, abbiamo la straordinaria opportunità di ascoltare voci con memorie di diversi continenti alle spalle. E allora perché non raccogliere questi frammenti di storia orale confrontandoli con uno studio serio e approfondito di cosa è stato il colonialismo, quali tracce abbia lasciato e quali siano gli esiti delle lunghe e mai terminate lotte anticoloniali?

Per fare tutto questo, tuttavia, c’è bisogno che noi docenti ci si abitui a lavorare con una ricca documentazione che vada ben oltre a ciò che forniscono i libri di testo e si sia capaci di fornire agli studenti materiali diversi su cui ragionare, discutere e mettere in forse certezze.

La storia, come ha dimostrato lo scorso anno la vicenda dell’insegnante assurdamente sospesa a Palermo, quando si confronta col presente infiamma gli animi e suscita polemiche. Proprio per questo è importante studiarla, praticarla, farne il cuore pulsante della scuola che, come luogo di costruzione culturale, ha il compito di insegnare a tutti noi la capacità di guardare con occhi critici il mondo che ci circonda.

Per arrivare a incontrarla, tuttavia, dobbiamo compiere lunghe manovre di avvicinamento che mettano in grado ragazze e ragazzi di confrontarsi con questioni grandi e domande legittime, a cui spesso non corrispondono risposte univoche.

La storia, luogo di connessioni contro la semplificazione Il grande nemico della conoscenza e dell’intelligenza oggi è la semplificazione, sono i tweet che erodono il pensiero lento, l’approfondimento, la capacità di dialogare e di sostare attorno a domande aperte.

Qualche anno fa, in quinta elementare, nel corso di una lunga ricerca attorno a “La scuola di Atene”, i bambini si sono chiesti come faceva Raffaello a immaginare i volti di filosofi e scienziati, visto che al tempo non c’erano fotografie. Quando ho raccontato loro che Raffaello aveva dato a Platone le sembianze di Leonardo, perché quello era per lui il volto del più grande maestro avesse incontrato, sono nate interessanti discussioni riguardo al fatto che noi non possiamo immaginare il passato se non partendo dal presente.

Qualche anno fa, leggendo e rileggendo in quinta elementare le cinque folgoranti righe con cui Erodoto dà avvio alle sue “Storie”, i bambini sono stati molto colpiti dalla sua scelta di voler dare dignità e memoria sia ai greci che ai barbari e dal suo domandarsi “la ragione per cui essi vennero in guerra tra loro”.

Il giorno dopo Emilia è arrivata in classe trafelata e ci ha rivelato di aver capito il perché. Aveva infatti scoperto su wikipidia che Erodoto era figlio di una greca e di un persiano.

Siamo stati così tutti felici di scoprire che la storia è nata dalla curiosità e dall’immaginazione di un sangue misto, dalla sensibilità di uno che è nato meticcio come Emilia, che è figlia di un uruguaiano e di una belga.

A Erodoto, alla fine dell’anno Maia ha scritto una lettera: «Secondo me hai fatto una delle invenzioni più utili di tutte: la Storia! Senza la storia come avrebbe fatto Martin Luther King a sapere di Gandhi e della nonviolenza e quindi fare come lui? E noi? Noi come avremmo fatto a sapere di tutti voi? Ipazia, nessuno saprebbe chi era...».

Ecco, quando la storia diventa luogo di connessioni inaspettate apre la mente e non può non appassionare ragazze e ragazzi.

Un articolo di Franco Lorenzoni maestro 28 01 2021

Data ultima modifica: 29 gennaio 2021