GAZA: "Un giorno saremo liberi anche noi"

Freestyle tra le bombe. La potente fragilità dei giovani di Gaza

15 anni di assedio. Allo skatepark di Gaza city si ritrovano ragazzi e ragazze scampati a guerre, case bombardate, ferimenti.

«Un giorno saremo liberi anche noi».

Arrivano alla spicciolata allo skatepark del FREEstyle al porticciolo di Gaza. Qualcuno passando per l’ingresso principale. Altri, più audaci, preferiscono scendere, afferrando improbabili appigli e sporgenze, lungo un muro alto diversi metri.

Sami, 22 anni, palesa una destrezza fuori dal comune scegliendo il percorso più rischioso. Pur avendo una sola gamba pare in grado di superare ogni ostacolo. Spicca un salto di un paio di metri da una struttura di metallo arrugginita e atterra su una sola gamba senza apparente difficoltà. Volge lo sguardo dalla nostra parte e sorride. Sami ha avuto la gamba amputata due anni fa. Prendeva parte, come altre migliaia di giovani palestinesi, alle manifestazioni della Marcia del Ritorno, lungo le barriere di demarcazione tra Gaza e Israele. Un tiratore scelto dell’esercito israeliano, appostato su una duna di sabbia, in alto dietro le recinzioni, lo colpì poco sotto l’inguine. I medici non riuscirono a salvargli la gamba e da allora Sami cammina con l’aiuto di due stampelle. Anche Awad, 21 anni, è stato ferito due anni fa alla Marcia del Ritorno: al posto di un piede ha una protesi. E pure Nivin, 19 anni, fu colpita a una gamba, per fortuna non in modo grave. «Ero all’accampamento Malaka» ci racconta la ragazza «non ero a ridosso delle recinzioni ma molto più indietro. A un certo punto provai un dolore acuto misto a bruciore a una gamba. Solo dopo qualche secondo vedendo il sangue capii che ero stato colpita da un proiettile. Mi ha lasciato una cicatrice profonda ma, per fortuna, ho ancora la gamba». Furono centinaia i giovani di Gaza feriti agli arti inferiori dal fuoco dei cecchini israeliani. Tanti hanno disabilità permanenti. E a questi aggiungeranno non pochi dei feriti degli ultimi bombardamenti aerei israeliani.

Lo skatepark è pieno. Bambini e adolescenti in maggioranza. Qualcuno va all’università, altri tra qualche giorno cominceranno il Tawjihi, la maturità. Si lanciano, quasi tutti senza casco, sulla pista ondulata costruita grazie all’aiuto di ragazzi e ragazze come loro venuti da Milano, Roma e Napoli a Gaza, grazie al progetto FREEstyle, per permettere ai giovani gazawi di praticare le discipline di strada come forma di espressione e libertà e per dare continuità a laboratori con ragazzi e ragazze palestinesi che hanno subito traumi di guerra. Tareq, capelli lunghi tenuti fermi da una fascia, fisico atletico e look dark, è tra i più bravi nel lanciarsi a tutta velocità sulla pista. La sua passione per i pattini a rotelle e lo skateboard è incontenibile quanto la rabbia che mostra di avere in corpo.

«Un giovane qui a Gaza non ha molte occasioni di svago» ci dice «ma non vogliamo neanche piegarci alle imposizioni di Israele, all’assedio, siamo gazawi, siamo forti, non ci piace la guerra ma non ci spaventa. Un giorno saremo liberi anche noi».

È vero sono forti i ragazzi di Gaza. Dietro quella forza però si nascondono grandi fragilità. I traumi di guerra sono diffusi. Un palestinese di 20 anni ha vissuto da bambino, da adolescente e da giovane adulto cinque grandi operazioni militari israeliane: 2006, 2008, 2012, 2014 e maggio 2021. «Un giovane di Gaza spesso ha subito il dolore della perdita di un familiare – ci riferisce l’avvocato Adam Jad, del Centro palestinese per i diritti umani – o di non avere più una casa e di aver vissuto da sfollato per mesi, talvolta per anni. Con ogni probabilità non ha potuto frequentare per lunghi periodi la scuola danneggiata dai bombardamenti. E dopo la scuola non ha trovato lavoro e non ha potuto viaggiare o a studiare all’estero. Il blocco (israeliano) sta limitando le opportunità socioeconomiche disponibili. Il tasso di disoccupazione giovanile a Gaza è al 70%».

Secondo uno studio pubblicato da Reliefweb (Onu) il 38% dei giovani di Gaza ha considerato il suicidio almeno una volta. Anni di emergenze e crisi protratte hanno esaurito la capacità di recupero dei due milioni di palestinesi di Gaza. La pandemia ha contribuito all’aumento delle sfide alla salute mentale dei giovani. E traumi e disturbi d’ansia in gran parte non sono trattati. I dati disponibili riferiscono di oltre 500 tentativi di suicidio all’anno, quasi sempre tra uomini di età compresa tra i 18 ei 30 anni. Giovani che si percepiscono inutili, incapaci di provvedere ai propri bisogni e a quelli della loro famiglia.

Ali Tayeh, 24 anni, invece la ama la vita, sino in fondo. Non è uno skater ed è qui perché desiderava rivedere i suoi amici, per fortuna tutti scampati ai bombardamenti delle scorse settimane.

È un pittore. «Specializzato in nudi artistici» ci tiene a precisare ma, aggiunge, «qui a Gaza non posso avere modelle per i miei dipinti, la società conservatrice non lo permette. Così faccio ricorso a qualche immagine su libri d’arte».

Prima della pandemia Ali aveva tenuto una mostra in Italia. «E vorrei tornare nel vostro paese – aggiunge – mi piace molto anche se ho tutto qui ed è a Gaza che voglio vivere.

Il mondo deve aiutarci a mettere fine all’assedio israeliano». Meri Calvelli, rientrata a Gaza da qualche mese, è la direttrice del «Centro di scambi culturali italo-palestinese Vik».

Per anni ha organizzato l’ingresso a Gaza di decine di giovani italiani del FREEstyle. «Tra il Covid e la guerra si è fermato un po’ tutto – spiega con rammarico – ma contiamo di riprendere appena possibile. Gli scambi, il dialogo con giovani di diverse parti del mondo è una terapia fondamentale per i ragazzi di Gaza».

Un articolo di Michele Giorgio 30 05 2021 Il Manifesto

Data ultima modifica: 10 agosto 2021