AL CARO AMICO DON MILANI

AL CARO AMICO DON MILANI

Devo dire che ho conosciuto don Milani la prima volta che è venuto a confessarsi da me. Non sapevo neanche chi era; l’ho saputo lì per lì.

Dice: «Senti, vorrei confessarmi». Era lì col suo mantello. Poi m’accorgo: «Ma tu sei don Milani…..». «Sì». «Parla…». Ricordo questo uomo: si inginocchia per terra con quel senso dell’umiliazione di se stesso. Mi ha subito sconvolto; mi ha dato l’impressione che non l’avrei dimenticato più. Da lì siamo diventati veramente grandi amici.

Io l’ho conosciuto quando ancora stava a Calenzano, prima di essere mandato a Barbiana.

Era tale la stima reciproca che mi aveva dato da stampare Esperienze pastorali dai Servi a Milano. Per un anno intero ho tenuto io il manoscritto, perché don Milani me l’aveva dato.

Erano anni in cui Montini diceva questa frase: «Tempi difficili percorrono, in cui non è neanche sufficiente essere prudenti, ma bisogna essere anche astuti».

Innanzitutto bisogna inserire molto bene don Milani nel suo tempo.

Questo vale per qualsiasi uomo e, in particolare, per uomini così difficili, così importanti, ma specialmente per don Milani, perché molto polemico, un uomo di grande pace, di grande fedeltà, ma anche rivoluzionario, di rottura, anche se oggi noi facciamo di tutto per addomesticarlo.

Oggi è facile parlare di lui, ma allora era veramente proscritto, un uomo isolato, segnato come una peste, come un elemento infettivo; quindi tutta la sua Fede, la sua fedeltà, il suo sacerdozio sono ancora più preziosi e quello che ha fatto è ancora più valido, perché pagato e scontato nella propria sofferenza.

Nonostante questo, era di una gioia grande. Egli afferma: «Ho Dio e perciò ho la gioia. Tanto Dio non me lo può portare via nessun Santo Ufficio. Dio c’è». Aveva questo senso di Dio, del rapporto col povero, con l’uomo, con l’amicizia.

Abramo Levi ha scritto su «Servitium» un bellissimo articolo, dove parla di lui, della gioia, malgrado l’austerità, la severità e la crudezza della vita. Voi siete stati a Barbiana. lo vi sono stato un mese prima che lui morisse, chiamato proprio da lui, e mi ha dato da leggere per la prima volta Lettera a una professoressa. lo l’ho letta, lui era sul letto, già con la leucemia, in attesa di morire… e parlavamo. Ho notato ancora questo senso della gioia: era veramente l’uomo della grande gioia.

Don Milani viene mandato a Calenzano e si accorge che qualcosa non funziona. Incomincia a mettere a posto e applica tutta quanta la sua formazione. Subito scopre, per prima cosa, che il popolo è trascurato e soprattutto, del popolo, i più poveri.

Egli incomincia a far lo studio del concreto; non fa mai discorsi che vanno sulle teste degli uomini o sui princìpi; lui fa il concreto.

Tu hai fame: se hai fame, bisogna risolvere il problema della fame.

Tu sei senza lavoro: bisogna risolvere il problema del lavoro.

Tu sei senza cultura: bisogna risolvere il problema della scuola.

Per lui prima di tutto i poveri, il grande problema dei poveri. Lui trova la più grande povertà dei poveri, quella di mancare della parola.

La Chiesa, lo Stato, la società avevano tolto la parola ai poveri. Milani diceva: «Bisogna restituire la parola ai poveri». È sua questa famosa frase:

«II mondo si divide in due categorie; non è che sia uno più intelligente e l’altro meno intelligente, uno ricco e l’altro meno ricco: un uomo ha mille parole e un uomo ha cento parole».

L’uomo dalle mille parole domina sempre sull’uomo dalle cento parole.

Bisogna restituire la parola ai poveri, perché si difendano e si facciano strada da soli.

Non è giusto che il prete faccia il vicario dell’assistenza sociale. C’è una lettera dove dice:

«lo mi vergogno di andare a chiedere il lavoro per i poveri. Sono i poveri che devono andare a cercare il lavoro da soli, perché raccomandare un uomo è già umiliarlo». C’è una pagina nel libro della Neera Fallaci, quando va a raccomandare un certo Franco e poi si vergogna e dice: «Questo è sbagliato; dobbiamo rendere la gente capace di affrontare la vita da soli».

Ad esempio, il padre e la madre non devono sostituirsi al figlio, devono semplicemente insegnargli a diventar grande, a camminare da solo; poi, quando cammina, lasciarlo camminare. Diversamente sarebbe paternalismo.

Da questo nasce la sua concezione della scuola, non soltanto come momento tecnico di formazione con l’acquisto della parola, ma anche come coscientizzazione. Il Vangelo si può comunicare a due condizioni: o c’è la Sapienza di Dio che supplisce – e allora va bene – o c’è la cultura. Senza cultura o senza Sapienza non si può comunicare neanche il Vangelo. Ma attenzione: non si può tentare Dio e puntare soltanto sulla Sapienza. Vediamo anche di puntare sulla cultura.

Su queste premesse nasce la scuola di Calenzano prima, e quella di Barbiana dopo. Egli dice:

«Non è che io debba salvare il mondo intero; devo salvare l’uomo. Allora mi dedico a questi uomini qui, non a quelli che stanno di là» (il terzo mondismo…).

Egli dice che noi a forza di pensare troppo in grande ci dimentichiamo del piccolo. E poi, a furia di pensare in grande, siamo sempre pessimisti. Era pessimista anche lui, molto pessimista di fronte alla società; però aveva sempre il senso della speranza, che vinceva il suo pessimismo. Era convinto che il povero è soprattutto tale perché manca di cultura, manca della parola.

Pertanto la sua scuola avrà quel rigore didattico-pedagogico espresso in Lettera a una professoressa.

Vi si legge il modo con cui faceva scuola, la stima che aveva dei ragazzi, la sua opera educativa che agiva sempre sul singolo, sul concreto, sul caso per caso. Quando è partito da Calenzano per Barbiana, diceva: «lo obbedisco, tanto Dio non me lo può rubare nessuno». Aveva il senso del concreto, del particolare; dove andava, trovava il suo mondo, la possibilità di realizzare il suo programma, la sua fede.

Don Milani ha la certezza assoluta che senza giustizia non si può praticare neanche l’amore, quindi è sul fronte della giustizia che si batte e perciò sembra a volte spietato. D’altra parte – dice – l’amore senza la giustizia è una presa in giro dell’uomo. Se non si capisce questo punto, sembra più una prevalenza del Vecchio Testamento (la Giustizia) che del Nuovo Testamento (l’Amore). E acutamente osservava: «Che strano! Questa Chiesa mette sempre l’aspetto bello dei candelabri verso il popolo e l’aspetto brutto verso Cristo…».

D’altra parte aveva un senso profondo dei Sacramenti, della preghiera, della Comunione. Aveva un senso di questa Chiesa come l’unico spazio per i poveri, e questa è la vera Chiesa, in contrasto con la Chiesa ufficiale. E lì ha cominciato a mettersi con gli obiettori di coscienza, con tutti gli emarginati; è diventato un apostolo, un segno per la rivolta nella fedeltà.

Lontanissimo da lui il pensiero di andar fuori dalla Chiesa. E così l’uomo rimane obbediente nella misura in cui diventa sempre più libero.

La lettera di David Maria Turoldo teologo, filosofo, scrittore, poeta e antifascista italiano,

(Vertova - Bergamo 7 Marzo 1978)

Data ultima modifica: 27 giugno 2023