Il ragazzo ivoriano che inciampò in una macchina fotografica

Dopo una lunga odissea durata anni, finalmente da ieri Mohamed Keita, fotografo e pedagogo della fotografia che lavora tra l’Italia e il Mali, ha ottenuto la cittadinanza italiana. Lo abbiamo festeggiato in tanti nella sede del suo laboratorio romano, aperto grazie alla Fondazione Piano Terra. La sua storia esemplare raccontata in un articolo da Franco Lorenzoni uscito quando espose le sue fotografie al Museo Pecci di Prato.

Potrebbe apparire superfluo o stravagante proporre un corso di fotografia a chi ha fame e non ha tetto, ma è proprio una piccola macchina fotografica che ha rivelato a Mohamed un talento sconosciuto e gli ha aperto strade inaspettate

E’ possibile fotografare le periferie del sud del mondo superando la pigrizia di tanti stereotipi?

Mohamed Keita, giovane fotografo ivoriano talentuoso e apprezzato, affronta la sfida nel modo più semplice: dando in mano una buona macchina fotografica a un gruppo di ragazzi dopo averli coinvolti in una ricerca esigente. Per rendere possibile questa scommessa ha trasformato un cubo di cemento diroccato di un quartiere della periferia di Bamako in un raffinato luogo di ricerca di immagini che mira all’essenziale.

L’efficacia del suo gesto nasce da un lungo viaggio di andata e ritorno.

Persi i genitori sotto un bombardamento, Mohamed parte a quattordici anni dalla Costa d’Avorio, attraversa il Mali, il deserto, l’Algeria e la Libia e, dopo innumerevoli traversie, vessazioni e detenzioni, sbarca a Malta e finalmente raggiunge l’Italia. A diciassette anni lo troviamo a Roma, a dormire tra due cartoni alla stazione Termini. È qui che la ventura lo porta a incrociare gli operatori di CivicoZero che gli offrono cibo e una macchina fotografica.

Fermiamoci un momento su questo dettaglio. Potrebbe apparire superfluo o stravagante proporre un corso di fotografia a chi ha fame e non ha tetto, ma è proprio in quella piccola macchina fotografica che inciampa il destino di Mohamed, rivelandogli un talento sconosciuto che gli apre strade inaspettate.

“Da allora la macchina fotografica è una mia amica, una sorella. Ricordo tutta la gioia che ho provato quando me l’hanno regalata, la felicità di riuscire a dire con le immagini quello che stavo vivendo. Raccontare cosa vedevo, cosa ho subito. Attraverso l’immagine posso evitare di parlare. E poi, quando mostri le tue foto, nessuno pensa che tu gli stai insegnando qualcosa”.

I suoi primi scatti alla stazione Termini sono molto apprezzati e negli anni successivi viene invitato a esporre le sue fotografie alla Camera dei Deputati, a Milano, Londra, New York e alla Biennale di Venezia.

Tuttavia, nonostante i numerosi riconoscimenti, Mohamed non si sente un artista, non si accontenta. Vuole tornare nei luoghi del suo viaggio e ripercorrere la strada in senso inverso in compagnia di quella macchina fotografica che ha modificato la sua vita. Così torna in Africa, va in Mali alla ricerca di suo fratello e una volta trovatolo a Kanadjiguila, nella periferia occidentale della capitale che ospita profughi ivoriani e del Ghana, decide di trasformare la casa semidiroccata in cui alloggiava in una sua scuola di fotografia che fonderà l’anno seguente, chiamandola Kene, che in mandingo vuol dire spazio.

A spingerlo in questa impresa educativa sono gli sguardi dei ragazzi che incontra e l’avere sperimentato in prima persona che solo volando alti si allarga il proprio orizzonte e si riconosce davvero dignità a chi si vuole aiutare.

Il pane e le rose, rivendicavano le operaie tessili inglesi con i loro scioperi a inizio novecento. Il nostro fotografo sa per esperienza che talvolta le rose portano il pane ed è per questo che immagina per quei ragazzi che non sanno cosa fare della loro vita, un progetto che ha al centro la bellezza, data dall’imparare a osservare nel loro paesaggio di strade sterrate i giochi della luce radente, le composizioni di capre e stoffe, corpi, giochi e muri scrostati. Una bellezza capace di raccontare un quotidiano ricco di sfumature, a volte comico, surreale e sorprendente. Sapere osservare i propri spazi con nuovi occhi è il primo passo per riappropriarsi del proprio destino. Questo è l’insegnamento che Mohamed Keita ha ricevuto a Roma e che da due anni condivide con un gruppo di ragazzi del Mali.

“Quando vivevo in Costa d’Avorio non è che avevo tanto interesse per le persone. È stato il viaggio, dormire per strada, che mi ha insegnato tante cose della vita e capire chi ti vuole davvero bene. Sono state le difficoltà attraversate che mi hanno insegnato che la cosa più bella che possiamo fare in questo mondo è aiutarci l’uno con l’altro. Sono sicuro che se avessi studiato, se avessi fatto anche l’Università in Costa d’Avorio, non avrei scoperto tutto questo. C’è un mondo che è molto vicino a te e tu non puoi conoscere. È lì a due passi, ma non puoi vedere l’essenza senza starci dentro”.

Se la poetica della sua scuola si fonda sulla prossimità e il vedere da dentro le cose, l’impegno educativo del giovane Keita è venato da una persuasione etica che lo porta a non fermarsi alla fotografia.

Mohamed non è andato a scuola e sa che quando hai troppi problemi che ti premono in testa è difficile studiare. Ecco allora che la produzione quotidiana di immagini nel suo laboratorio diventa una chiave per aprire porte, sciogliere rigidità, invitare anche a un ritorno allo studio, a imparare a leggere e scrivere.

“Solo crescendo insieme si arriva a dare il proprio meglio al posto in cui ti trovi”.

Un articolo di Franco Lorenzoni 14 07 2020 repubblica.it

Data ultima modifica: 6 novembre 2023